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Bond

Tassi bassi per il prossimo decennio?

L’intenzione di tutti - governi, banche centrali e mercati - è quella di restare dentro questo paradigma almeno per tutto il prossimo decennio (magari con più crescita). L'analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos

 

Si guarda l’azionario con i suoi multipli tirati e viene voglia di rifugiarsi nei bond. Si guardano i bond con i loro rendimenti negativi e viene voglia di rischiare sull’azionario.

Non si esce da questo movimento circolare del pensiero se ci si ferma alla fotografia del presente. Per sbloccarlo occorre introdurre il fattore tempo e pensare ai rendimenti obbligazionari inchiodati a zero per altri cinque anni e forse più. La certezza di un ritorno a cinque anni pari a zero sui bond va confrontata con la possibilità che, a un certo punto dei prossimi cinque anni, l’azionario sia, ad esempio, del 10 per cento sopra i livelli attuali. È concreta questa possibilità? Sì, certo. Già, ma quanto è concreta la possibilità che le borse, a un certo punto dei prossimi cinque anni, si trovino al di sotto del livello attuale?

Robert Shiller di Yale, solitamente vir prudentissimus, scrive in questi giorni che i multipli elevati sono ragionevoli se si considera il rendimento zero dei bond. Un corollario, che aggiungiamo noi, è che è sufficiente una ripresa anche modesta degli utili nei prossimi anni affinché, a multipli stabili, le borse salgano.

Risponde Albert Edwards, il noto teorico dell’era glaciale deflazionistica, che Shiller rischia di fare la fine di Irving Fisher, che alla vigilia del crash del 1929 scrisse che la borsa avrebbe potuto rimanere tranquillamente su livelli elevati per un lungo periodo di tempo. Nota Edwards che l’idea che a rendimenti obbligazionari bassi debba corrispondere una borsa forte è storicamente quasi un’eccezione. Spesso, infatti, ai rendimenti bassi sono stati associati rischi di recessione o addirittura recessioni conclamate, situazioni negative per le borse. Aggiungiamo che ci sono stati anche periodi, come gli anni Cinquanta, in cui i rendimenti erano bassi in assenza di recessione. L’economia andava anzi bene e ciononostante i multipli azionari erano, ai nostri occhi, straordinariamente bassi.

Che conclusione trarre da queste considerazioni? Essenzialmente una, a nostro parere, quella di storicizzare l’attuale paradigma tassi bassi/multipli alti e di non considerarlo immutabile ed eterno ma il frutto di un delicato equilibrio fatto di crescita strutturale bassa dell’economia, demografia favorevole, eccesso di risparmio rispetto agli investimenti, ampie risorse inutilizzate, politiche monetarie e fiscali espansive e uso degli asset finanziari come strumento di politica monetaria. L’intenzione di tutti, governi, banche centrali e mercati, è quella di restare dentro questo paradigma almeno per tutto il prossimo decennio (magari con più crescita). Le possibilità che questo modello continui a funzionare sono alte nei primi anni del ciclo che sta per iniziare, ma a un certo punto le cose cominceranno a complicarsi.

Le cose si complicheranno anche prima se le economie non riusciranno a riprendersi nei tempi che oggi ci attendiamo o se gli stimoli saranno eccessivi (creando bolle e inflazione) o insufficienti. La passeggiata trionfale che alcuni commentatori prefigurano per il 2021 sarà in realtà un percorso a ostacoli, ma per la visibilità che possiamo avere oggi uno scenario complessivamente positivo per l’azionario continua a rimanere l’ipotesi più ragionevole, quella su cui impostare la costruzione dei portafogli. Il resto è materia per il risk management.

Tornando al dilemma iniziale, quello tra bond e azioni, un settore di mercato in cui entrambi potrebbero fare bene nei prossimi mesi è quello dei paesi emergenti. La loro ripresa in termini di quotazioni è già evidente da qualche tempo, ma c’è ancora spazio.

Il discorso vale per tutte e tre le aree in cui possiamo dividere il settore. Per l’Asia si tratta di economie in buona salute, che hanno retto bene alla pandemia (meno bene procedendo da est a ovest) e che in molti casi, a partire dalla Cina, offrono rendimenti particolarmente interessanti sui governativi in valuta locale.

Per l’Africa e per l’America Latina si tratta generalmente di economie più fragili e indebitate ma, a differenza degli ultimi decenni del secolo scorso, lo shock esterno della pandemia non le ha colte surriscaldate e particolarmente sbilanciate, ma già sulla difensiva (con l’eccezione turca) da alcuni anni. In questo lungo purgatorio, corrispondente grosso modo alla fase successiva alla fine del boom delle materie prime trainato dalla Cina, questi paesi hanno svalutato molto, difendendo le loro riserve e la loro competitività. Il loro debito è aumentato, ma in molti casi l’esposizione è verso la Cina, che non ha interesse a soffocarli.

La Russia, dal canto suo, si è destreggiata tra sanzioni e caduta del prezzo del petrolio con molta abilità tecnica. I problemi della sua economia sono strutturali, ma le prospettive per il rublo e per la borsa nei prossimi mesi sono buone.

Per gli emergenti si profila ora un allineamento di circostanze favorevoli. Il dollaro debole richiama capitali attratti dagli alti rendimenti dei titoli locali. L’uscita dalla pandemia in Occidente, per quanto graduale, significa ripresa delle rimesse degli emigranti e del flusso turistico. Il rialzo delle materie prime, destinato a continuare nei prossimi mesi se alla ripresa cinese si affiancherà quella di Europa e Stati Uniti, porterà ulteriore ossigeno. Dal canto suo, la quasi completa sparizione del settore nei portafogli degli investitori internazionali nell’ultimo decennio crea oggi lo spazio per una robusta corrente di acquisti.

Conforta anche che la ripresa di attenzione verso il settore sia priva dell’enfasi dei primi anni Duemila, quando si faceva a gara nell’anticipare il più possibile il sorpasso dell’economia indonesiana o brasiliana su quella dei singoli paesi europei. Oggi siamo tutti più sobri. Anche se è vero che, anno dopo anno, molte di queste economie si avvicinano per dimensione alle nostre, l’accento è ora sulla ripresa ciclica. Nessuno ipotizza strabilianti e duraturi guadagni, ma un carry di tre-cinque punti su dollaro e euro, unito alla prospettiva di un apprezzamento del cambio o comunque di una sua stabilità e a borse sottovalutate è comunque interessante. D’altra parte, per chi in questo momento ha dubbi amletici tra crescita e valore, questi paesi offrono spesso una buona combinazione dei due fattori.

Venendo ai nostri mercati e al breve termine, a parte alcune bolle che tendono continuamente a formarsi in alcune aree circoscritte, l’azionario, compatibilmente con la logica del paradigma nel quale siamo immersi, è controllato e abbastanza razionale. Lo spostamento da crescita a valore ha la giusta velocità, la volatilità realizzata è bassa e la tendenza è verso un rialzo prudente.

Certo, per il momento non si dà molto peso a possibili sviluppi negativi (Brexit, il durissimo scontro legale che si profila alla Corte Suprema sulle elezioni, il faticoso procedere delle misure fiscali tanto in America quanto in Europa, la seconda recessione in corso e il suo prevedibile prolungarsi nei primi mesi dell’anno nuovo). Ci potrà essere un po’ di turbolenza, nelle prossime settimane, ma resta giusto mantenere lo sguardo sull’uscita graduale dalla crisi nel corso del 2021.

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