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Giorgetti

Vi racconto il colpo di Stato nel 1992

C'è stata una "trattativa illegale" intorno a Tangentopoli, che segnò la fine della Prima repubblica. I Graffi di Damato.

Per il clamore anche grafico dell’annuncio, su tutta la prima pagina di ieri del Riformista, con quella foto di Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro nella Galleria di Milano, il titolo sul “colpo di Stato” nel 1992 e “la trattativa illegale” raccontata fra i magistrati e la classe politica investita dalle loro indagini sul finanziamento illegale della politica, qualcuno sarà stato portato a pensare ad una sortita paradossale e un po’ troppo arbitraria dell’amico direttore Piero Sansonetti, che ci ha messo tanto di firma e di faccia. O ad una sua lettura forzata dell’introduzione scritta da Gherardo Colombo al libro postumo di Enzo Carra, il portavoce di Arnaldo Forlani e della Dc esibito nei corridoi del tribunale di Milano con gli schiavettoni ai polsi nel 1993.

Non c’è invece nulla di paradossale, di arbitrario, esagerato e quant’altro. Se proprio un rilievo può essere mosso a Piero è di avere rappresentato quello di Gherardo Colombo – uno dei magistrati di punta del pool milanese di “Mani pulite” – come “un aspetto finora sconosciuto e sconvolgente di quella stagione” sfociata nella decapitazione, fine e quant’altro della cosiddetta prima Repubblica. Molti erano, anzi eravamo consapevoli che dietro le quinte degli arresti clamorosi, delle file dei pentiti o simili davanti alla Procura di Milano per scoperchiare Tangentopoli, dei cortei inneggianti alle manette si svolgessero non le vere e proprie trattative gridate da Piero evocando la minaccia a corpo politico, come quella poi contestata per i rapporti fra mafia e politica nella stagione stagista, ma qualcosa che molto assomigliava. Si svolgevano addirittura incontri di studio per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, consistente in una sostanziale confessione degli imputati o imputabili e in un loro impegno al ritiro della politica in cambio della salvezza giudiziaria, o penale, se preferite.

D’altronde, fu proprio da quel traffico di incontri, consultazioni, progettazioni che nel marzo del 1993 uscì, in un “pacchetto” di misure del governo allora presieduto da Giuliano Amato, il famoso decreto legge che fu intestato al guardasigilli Giovanni Conso. Il quale peraltro ebbe la cortesia di telefonarmi per chiedermi di non continuare anch’io ad attribuirgli in modo così diretto ed esclusivo quel provvedimento, che depenalizzava il reato di finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica.

LA “RISPOSTA POLITICA” A TANGENTOPOLI

Rileggete qui con me, per favore la sintesi apposta sull’Unità di sabato 6 marzo 1993 ad un articolo di Fabrizio Rondolino sul parto del governo: “La “risposta politica” a Tangentopoli si chiama depenalizzazione (retroattiva) del reato di violazione del finanziamento pubblico. Superando le incertezze dc e le perplessità di Conso, Amato impone la riforma per decreto. Ora tocca al Parlamento convertirlo in legge. E i tempi coincidono con la campagna referendaria. Il futuro del governo è insomma pieno di insidie”.

La campagna referendaria era quella per l’abolizione della legge sul finanziamento pubblico, appunto, dei partiti. E quella coincidenza fu tra le cause, se non l’unica invocata più esplicitamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per rifiutare la firma al decreto per la depenalizzazione del reato di violazione di quella legge: una firma che invece molti, a cominciare da Giuliano Amato, che poi se ne sarebbe pure lamentato pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera, davano per scontata. Scontata perché la riunione del Consiglio dei Ministri dedicata al provvedimento era stata ripetutamente interrotta per consultazioni col Quirinale.

I primi commenti a caldo al decreto legge, a cominciare da quello del fondatore e ancora direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, furono comprensivi, nella convinzione che il provvedimento rispondesse anche ai pareri espressi, raccolti e quant’altro nell’ambiente giudiziario più direttamente interessato alle indagini con quel nome altisonante, ripeto, di “Mani pulite”, ma forse non troppo, se non addirittura accompagnate, come qualcuno titolò, alle “coscienze sporche”.

Fu proprio per contestare l’impressione di un accordo stipulato dietro le quinte con gli inquirenti, insomma della “trattativa” evocata da Sansonetti usando la prefazione di Gherardo Colombo al libro di Carra, che Borrelli in persona si pronunciò pubblicamente contro il decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri, facendo cambiare idea a quelli che ne avevano dato una lettura sostanzialmente favorevole o accettabile, a cominciare dal capo dello Stato. Che, guarda caso, dopo e non prima della sortita clamorosa del capo della Procura di Milano annunciò il rifiuto di firmarlo cambiando per la seconda volta le abitudini del Quirinale, o la prassi come preferiscono dire gli esperti.

La volta precedente era stata quella del 1992, quando le consultazioni del capo dello Stato per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne delle elezioni ordinarie erano state allargate, a dir poco, dai gruppi parlamentari e rispettivi partiti proprio a Borrelli. Che dovette riferire sulle indagini in corso -sempre quelle di “Mani pulite”- in modo tale che poi Scalfaro non ritenne di poter conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Bettino Craxi, che la Dc guidata da Arnaldo Forlani si accingeva a proporgli formalmente. Il capo dello Stato riuscì a convincere il leader socialista, del quale era stato ministro dell’Interno nella prima esperienza di presidente del Consiglio, a rinunciare spontaneamente e a proporre lui stesso il compagno di partito da preferire. Giuliano Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli, rispose Craxi aggiungendo: “in ordine non solo alfabetico”. Non è più cronaca, ma storia.

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