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Perché l’economia ha condannato Sunak

I sondaggi sulle elezioni in Gran Bretagna. I laburisti di Starmer dati per favoriti. Il programma striminzito del Labour. E i pochi successi in economia di Sunak secondo il New York Times.

Sarà un ribaltone in piena regola e il sondaggio YouGov dell’ultim’ora non fa che confermarlo. A vincere le elezioni in Gran Bretagna saranno i laburisti di Keir Starmer, mentre per i Tories di Sunak si prospetta forse anche l’umiliazione di non veder rieletto il premier in carica per la prima volta nella storia britannica.

Il sondaggio YouGov

È già festa dalle parti del Labour, che secondo il sondaggio dovrebbe aggiudicarsi 431 seggi, con un gran balzo rispetto ai 229 ottenuti alle ultime elezioni di cinque anni fa.

E sarà, per converso, una disfatta per i Tories di Sunak, che dovrebbero portare a casa appena 102 seggi contro gli attuali 263.

Se lo scenario sarà questo i conti sono presto fatti: come scrive Politico, il Labour disporrà di una maggioranza di ben 212 seggi, la più ampia dal 1832.

Quanto agli altri contendenti, i Liberaldemocratici di Ed Davey otterranno 72 seggi, mentre saranno appena tre quelli del movimento Reform del redivivo Niger Farage e due quelli dei Verdi.

Le proiezioni in termini percentuali di voto di questo stesso sondaggio assegnano il 39% al Labour, il 22 ai Conservatori, il 15 a Reform UK, il 12 ai Liberaldemocratici e il 7 ai Verdi.

Sull’altare e nella polvere

Con la certezza del predestinato, scrive il Guardian, Starmer si è già detto “pronto a governare” salutando “una nuova era di speranza e opportunità”.

L’umore è invece opposto in casa Tory, dove il premier Sunak ha confidato ai suoi il timore di perdere il suo stesso seggio nello Yorkshire, vinto l’ultima volta col 63% dei voti, entrando così nella storia britannica come il primo capo di governo in carica a non venire rieletto.

Il Guardian rivela che Sunak, in assenza di impegni parlamentari, starebbe meditando di fare ritorno nell’industria della finanza, dove un suo ex collega gli avrebbe offerto un ufficio a Mayfair a Londra. Ma questa indiscrezione viene smentita sulle pagine dello stesso Guardian da una fonte conservatrice per la quale il premier “non ha interesse” a tornare a occuparsi di finanza e sarebbe intenzionato a rimanere nello Yorkshire.

Anche il Sun

E un segnale dei tempi nuovi che è stato prontamente intercettato da tutti di media tra cui Bbc e Bloomberg è anche il fresco editoriale del tabloid The Sun intitolato “È l’ora del cambiamento”, un atto eclatante per una testata che appoggia i conservatori dal lontano 2010 sia pur dopo aver sostenuto il popolare leader laburista Tony Blair.

Cosa succederà

Spetta al britannico The Economist spiegare fin dalle prime ore di stamattina che a guidare quasi certamente il Paese da domani sarà un uomo che ha scelto “Change” come parola chiave della sua campagna elettorale e a cui si attribuisce il merito di aver già provocato una profonda trasformazione del suo partito.

Un Labour, prosegue l’Economist, che si è presentato con un manifesto striminzito e parco di promesse tra cui quella di assumere più insegnanti e medici e di creare una nuova agenzia per gestire il problema dell’immigrazione irregolare.

Ma la vera priorità del governo Starmer sarà aggredire il grave problema della crescita anemica, e a tal proposito si registrano le promesse del Cancelliere dello scacchiere ombra Rachel Reeves di voler condurre un’agenda “pro crescita e pro business”.

Ma è stato lo stesso futuro premier a dissipare ogni dubbio su possibili ripensamenti sulla Brexit in un’intervista della vigilia in cui ha insistito che Londra, finché lui sarà vivo, non rientrerà nell’Unione e nemmeno nel Mercato unico o nell’Unione doganale.

14 anni di?

Se oggi si conclude un’era durata ben 14 anni attraverso cinque diversi primi ministri, sarà pur tempo di bilanci.

Quello fatto dal New York Times della lunga stagione conservatrice non è particolarmente generoso, e non solo perché in mezzo c’è il disastro chiamato Brexit e una criticabilissima gestione della pandemia.

Gli indicatori scelti dal quotidiano sono la produttività in costante declino, la crescita impercettibile dei salari, uno dei tassi di investimento più bassi nel G7, il gran balzo del debito e – dulcis in fundo – un incremento della pressione fiscale non propriamente thatcheriano.

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