Secondo un vecchio detto professionale, se un tizio dice che piove e l’altro dice che splende il sole, il compito del giornalista non è quello di riferire entrambe le voci ma di aprire una finestra e guardare fuori. È ancora così? Forse no, almeno a giudicare da alcuni casi estivi, che sembrano indicare una crisi dei contenuti, o meglio il crollo della deontologia che per lunghi anni ha sorretto la professione giornalistica, fino ad alimentare il mito del suo essere il cane da guardia del potere.
Ci sono, è vero, alcuni segni di speranza, come il coraggioso lavoro degli inviati RAI, in primo luogo Stefania Battistini, per documentare in prima linea l’incursione ucraina nel Kursk, spalancando appunto la finestra senza accontentarsi di rilanciare comunicati e video del Cremlino o dei suoi sostenitori italiani. Anche ignorando l’imbarazzante mancanza di sostegno ufficiale a Battistini e al suo collega Ilario Piagnerelli, ci sono troppi casi in cui la finestra rimane ben chiusa.
I gemelli palestinesi
La contabilità della morte è uno dei compiti più ingrati dello storico contemporaneo. Prestandosi facilmente a essere strumentalizzate, le cifre sono ormai armi di propaganda. Nella guerra di Gaza, in particolare, i numeri dichiarati dal “Ministero della Salute” di Hamas sono riportati senza alcuno spirito critico o sforzo di verifica, salvo dire che vengono – appunto – dall’organizzazione terroristica filoiraniana. Eppure, già dai “500 morti” dichiarati per il bombardamento dell’ospedale in novembre è chiaro che le cifre sono quanto meno frettolose e dunque inaffidabili: come si fa a dare cifre esatte poco più di un’ora dopo l’evento, soprattutto se le presunte vittime si trovano sotto le macerie?
È vero che la verifica sul posto è piuttosto difficile, ma è altrettanto vero che chi ha analizzato gli elenchi delle vittime vi ha spesso trovato incongruenze, errori e peculiarità statistiche che dovrebbero indurre a una maggior cautela.
Altrettanto vale per i casi mediatici di ferragosto, dai “100 morti” della scuola (poi scesi a 32, in gran parte miliziani) all’epidemia di poliomelite (già scesa ad un caso, anch’esso senza conferma indipendente) fino ai due gemellini. Di questi mancano foto non solo dal cellulare del padre, asseritamente guastato, ma persino della madre e dei numerosi famigliari. Persino il video del padre disperato alcune curiose incongruenze, dal totale disinteresse dei passanti a fronte della disperazione all’amico che guarda dritto in macchina come per ricevere istruzioni, fino al padre stesso che tra un pianto e l’altro si volta a cercare dove sedersi. Forse troppo poco per dire se sia falso o autentico, ma abbastanza per interrogarsi se e come rilanciarlo.
La censura al ministro Gallant
L’incursione di alcuni israeliani a Jit, in Cisgiordania, è l’ennesimo episodio difficile da raccontare all’interno di una situazione cronicamente difficile. Proprio per questo la deontologia imporrebbe grande cautela nel come si presentano le notizie, soprattutto quando (come spesso accade) ci si deve basare su agenzie o dichiarazioni sui social. Anche qui, invece, la stampa ha peccato per omissione e per commissione.
Per farla breve: omissione di controlli e di dichiarazioni, commissione di narrazione altrui. In sostanza, delle quattro principali dichiarazioni politiche è stata omessa la sostanziale unanimità nel condannare l’accaduto – sia pure con toni diversi tra il ministro della Difesa, Yoav Gallant, molto esplicito, e quello della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, a denti molto stretti.
Tutti, invece, hanno riportato acriticamente le parole del presidente Isaac Herzog, secondo cui l’attacco sarebbe stato un “pogrom”, un termine carico di emotività per le persone di religione ebraica in quanto descrive i massacri antisemiti a lungo tipici dell’Europa dell’Est. In realtà, Herzog ha parlato di “rivolta”, ma per qualche motivo sui media la parola è stata tradotta appunto come “pogrom”. In questa trappola siamo caduti anche noi, nella versione originale di questo articolo, proprio per la tendenza a fidarsi delle agenzie di stampa e dei grandi media, fonti secondarie sulla cui serietà una volta si poteva fare affidamento.
A mettere sull’avviso avrebbe dovuto essere proprio la dichiarazione di Gallant, tanto distante da quella attribuita a Herzog da indurre a verificare quest’ultima sulla fonte originale. Chi non si fosse fidato delle agenzie, vi avrebbe trovato non solo il termine “coloni”, ma anche una ferma condanna, in nome non solo dell’opportunità politica (“una minoranza estrema che danneggia … la posizione di Israele nel mondo durante un periodo particolarmente delicato e difficile”) ma anche della sua distanza dal “modo della Torah e dell’Ebraismo.”
Ma sarebbe bastato anche riportare il solo Gallant – che, per la cronaca, solo Startmag ha pubblicato interamente – per far saltare la falsa rappresentazione degli israeliani (e non degli “ebrei”, come qualcuno si è spinto a scrivere) come vittime diventate carnefici tanto cara alla narrazione di Hamas.
Quel tweet di Gallant diceva così: “In un momento in cui le nostre truppe stanno combattendo su più fronti, per difendere lo Stato di Israele, un gruppo di persone radicalizzate ha lanciato una rivolta e attaccato persone innocenti. Essi non rappresentano i valori delle comunità che vivono in Samaria.
Condanno con forza ogni forma di violenza, e sostengo pienamente l’IDF, l’ISA e la Polizia israeliana nello svolgere i propri ruoli e gestire questa problematica.
Le rivolte violente e radicali sono l’opposto di qualsiasi codice e valore difeso dallo Stato d’Israele”.
L’australiana pro-pal
Beninteso, il problema non riguarda solo l’Italia. Il New York Times ha sospeso Natasha Frost, una sua collaboratrice basata a Melbourne avrebbe compilato 900 pagine di informazioni sugli ebrei australiani poi finite in mano, in circostanze ancora poco chiare, ad almeno un estremista anti-semita e quindi tradottesi in molestie di vario genere a danno di alcuni ebrei.
Al momento in cui scriviamo, l’edizione online del Times non fa parola dell’infortunio professionale, ma la vicenda è stata svelata dal New York Post, con successiva conferma dell’Australian Financial Review. Tra le varie perplessità suscitate dal caso, la prima riguarda la raccolta di dati, pare effettuata entrando in ungruppo Whatsapp ma soprattutto non legata a temi di lavoro. La Frost, secondo la sua stessa presentazione sul sito del quotidiano, scrive la newsletter dei giorni feriali “The Europe Morning Briefing”, con occasionali articoli di argomento australiano, come il mestiere di acchiappaserpenti (16 marzo) o libri illustrati di argomento australiano (1° marzo). E allora perché schedare gli artisti ebrei?
Per il Times, l’episodio mette in dubbio l’effettivo rispetto del codice etico interno, che proibisce ai giornalisti di fare politica, firmare petizioni, esibire adesivi di carattere politico e così via. Ma quale credibilità può avere il pezzo sugli “obbiettivi di Israele a Gaza” scritto il 15 agosto dalla Frost se davvero passava informazioni agli attivisti pro-pal in Australia? Quale credibilità può avere l’augusto quotidiano statunitense, se non impone ai collaboratori di rispecchiare il proprio codice deontologico?
(Il testo è stato aggiornato il 19 agosto sulla base delle segnalazioni dell’errata traduzione)