Caro direttore,
negli anni della fase modernizzatrice del suo regno l’ultimo Scià di Persia, Reza Pahlavi, concesse un’intervista a Éric Rouleau, autorevolissima firma di Le Monde di allora (a sua volta forse il più autorevole quotidiano del mondo – allora – per le questioni di politica internazionale). Ad un certo punto Rouleau interrompe lo Scià che sta vantando le sue riforme con un secco: “D’accordo, ma mi risulta che nelle vostre carceri siano ospitati centinaia di prigionieri politici”. La reazione dell’intervistato è glaciale e spiazzante: “Sbaglia, signor Rouleau, non sono centinaia, sono migliaia. Ma le garantisco che con una politica accomodante questo Paese in meno di dieci anni diventerà una repubblica islamica governata dalla Sharia!”. L’episodio è stato raccontato tempo dopo da Theodoros Pangalos, ministro degli Esteri greco nei governi Pasok e, all’epoca dell’intervista, giornalista alle prime armi che aveva accompagnato Rouleau nell’incontro con lo Scià.
Non è tanto l’esattezza della previsione il punto, ma il fatto che non solo l’Iran divenne alcuni anni dopo effettivamente – e rimane tuttora a dispetto di un sostegno popolare molto ridotto – una repubblica islamica, ma che Khomeini, forse senza rendersene conto, aveva inaugurato un revival dell’Islam integralista in tutto il mondo musulmano. Perfino nell’Arabia Saudita contraddistinta sinora da una notevole stabilità, quanto meno apparente, gli occidentali che hanno vissuto e lavorato nella penisola durante gli ultimi quarant’anni raccontano che l’integralismo si è accentuato negli ultimi vent’anni, non è insomma un fenomeno di resistenza al cambiamento ma al contrario è stato a suo modo un cambiamento.
Il sospetto, direttore, è che al fenomeno abbia contribuito proprio il più universale fattore di cambiamento degli ultimi 150 – 200 anni, i nostri amati Stati Uniti d’America. Non deliberatamente, certo, nessuno vuol dire che il sogno americano comprendesse la restaurazione della legge islamica, ma è evidente che qualcosa di americano ha giovato assai a questo fenomeno. E la prima illustre vittima fu proprio lo Scià cui gli americani fecero mancare il loro sostegno. Ma l’elenco è piuttosto lungo. Non ci siamo dimenticati degli anni Ottanta del secolo scorso, quando la guerra della Russia ancora sovietica in Afghanistan in capo a dieci anni si concluse con i sovietici tornati a casa con le pive nel sacco, grazie al sostegno della Cia ai Mujaheddin e non solo: l’“architetto” delle imprendibili fortificazioni dei Mujaheddin finanziate dagli Usa era uno dei figli di un grande impresario yemenita di lavori pubblici in Arabia, Muḥammad bin ʿAwaḍ bin Lāden, perché alla storia piace essere burlona, e ha fatto sì che anche l’intervento “occidentale” in Afghanistan durasse dieci anni e finisse nel modo inglorioso che ricordiamo, nonostante la assai pubblicizzata uccisione in Afghanistan, rege Obama, dell’ideatore dell’attacco dell’11 settembre 2002, Osama bin Laden appunto.
Nel nuovo millennio è stata la volta dei regimi laici, da quello di Saddam Hussein in Iraq, il cui crollo ha inaugurato una singolare convivenza dell’America con la predominante confessione islamica locale, quella sciita, a quello del siriano Bashar al-Assad che, oltre al torto di ospitare una grande base navale russa aveva quello, forse ancora più grave, di praticare una politica di rigorosa parità delle religioni presenti nel suo territorio, la cristiana, la ebraica e, last but not least, la maomettana. Gli anni Duemila, del resto, sono anche quelli della cancellazione della quasi secolare tradizione laica inaugurata da Kemal Pascià, nella nazione che è anche il più grande partner della Nato in Medio Oriente, la Turchia, un Paese al quale gli Stati Uniti hanno sempre concesso quasi tutto (non proprio l’Israele ma qualcosa che un po’ gli assomiglia), a vantaggio della restaurazione di un islamismo questa volta non sciita ma più vicino a quello dei sunniti Fratelli Musulmani. E bisogna pur ammettere che anche la scelta di Obama e della sua segretaria di stato Hillary Clinton di cavalcare le effimere “primavere arabe”, guarda caso tutte miranti al rovesciamento dei regimi non teocratici del Medio Oriente (nel caso della Libia di Mu’Hammar Gheddafi con successo grazie al deciso intervento della Francia di Sarkozy e dell’America di Obama, nel caso della Siria all’origine di una guerra di logoramento che si è conclusa mesi fa con Assad riparato a Mosca e la Siria alla mercè di un “ex jihadista” – qualunque cosa significhi – col convinto sostegno della Turchia del sunnita Erdogan) tradisca l’attrazione che esercita sulla politica Usa l’Islam integralista.
Come si spieghi questa deriva degli Stati Uniti, se con la loro ossessione antimonarchica che ogni tanto prende di mira perfino Buckingham Palace, se col ricordo dell’origine religiosa della loro democrazia, se con le politiche personali dei grandi petrolieri, io non ne ho la minima idea, ma è curioso notare come nemmeno la tragedia dell’11 settembre 2002 abbia incrinato l’oggettiva love story dell’America con l’Islam. Il mio sospetto, da digiuno di tutte le scienze geopolitiche che potrebbero soccorrere, è che la spiegazione stia, fin troppo banalmente, in una caratteristica antropologica degli americani (che noialtri europei, da quei decaduti che siamo, abbiamo subito fatto nostra). É la fretta, caro direttore, detto senza nessuna allusione ovviamente. Una fretta che ha fatto dire al politologo (ma anche funzionario dello State Department) Francis Fukuyama, tre anni scarsi dopo la caduta del Muro di Berlino, che la Storia era finita, e fatto credere a molti politici e opinion maker americani che in pochi anni di sviluppo economico la Cina sarebbe diventata un paese capitalista “normale”, ergo “democratico”, con la conseguente delusione presto tradottasi in sinofobia. Perché la fretta, per dirla col Poeta, non “dismaga” solo “l’onestà” ma anche quel “progresso” sulle cui illusioni vanamente Georges Sorel, più di cent’anni fa, aveva pubblicato un libro ricco di insegnamenti, inutili come sono tutti gli insegnamenti.