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elezioni americane

Tutti i temi e le incognite della campagna elettorale negli Stati Uniti

Il tema economico rimane il dilemma principale della politica interna e non è impossibile che il fattore Trump finisca per giocare a favore dei Democratici. Colloquio con Mario Del Pero, professore di Storia internazionale e Storia degli Stati Uniti allo SciencesPo di Parigi.

La premessa è che gli storici sono abituati a fare bilanci mezzo secolo dopo i fatti accaduti, per di più basandosi su documenti. Detto ciò, Mario Del Pero – professore di Storia degli Stati Uniti a SciencesPo, Parigi – non si sottrae affatto ad analizzare l’amministrazione Biden che si avvia a concludere il mandato. Certo, le valutazioni non possono essere definitive. Men che meno a causa dello scoppio di due guerre così devastanti e perduranti come quella russa in Ucraina e quella tra Israele e Hamas presso la Striscia di Gaza.

“Detto ciò, credo che sia un bilancio fatto di chiaroscuri e gli Stati Uniti, da un certo punto di vista, sono tornati a esercitare una forte leadership mondiale su alcuni temi”, spiega Del Pero citandone alcuni. Il rinnovato impegno sul cambiamento climatico con il rientro statunitense alla COP 26, per esempio. Ma anche sullo scenario internazionale gli Usa sono tornati ad essere un Paese leader, federatore. Meno sulla crisi israelo-palestinese. Più in generale, però, bisogna tenere a mente che “la politica estera non si fa con le scelte, con le azioni, ma si fa anche molto con ciò che viene chiamato il discorso di politica estera, cioè la retorica. E da questo punto di vista Joe Biden e Antony Blinken, il Segretario di Stato, hanno cercato di tornare a parlare”.

UN LIBERALISMO ATLANTISTA FUORI TEMPO MASSIMO

È tornato, almeno a parole, un liberalismo pienamente atlantista. Gli Stati Uniti sono tornati a guidare la comunità delle democrazie. Eppure, secondo Del Pero “quel tipo di discorso che un tempo avremmo detto occidentalista è un po’ obsoleto e un po’ fuori tempo massimo”. La storia recente, in questo senso, parla chiaro. Il riferimento è alla incriminazione di Vladimir Putin da parte della Corte penale internazionale, con chiara soddisfazione degli Usa. Anche se gli stessi Stati Uniti non sono stati esenti dalla violazione di sovranità (in Iraq o in Serbia) e non fanno parte del TPI. Da qui, quale futuro estero si può immaginare? I dossier internazionali aperti sono tanti e saranno problematici per entrambi i candidati alla presidenza, a prescindere da chi la spunterà nel voto del prossimo novembre. Le speranze di veder concludere nel più breve tempo possibile prima la crisi russo-ucraina e poi quella mediorientale sono presto svanite. E, detto che gli Usa resteranno l’attore principale sullo scacchiere, le soluzioni legate a un “piano di pace in Ucraina e a un altro interlocutore israeliano” a discapito di Benjamin Netanyahu, restano “ipotesi molto più semplici da dirsi che a farsi”.

LO SCONTRO SISTEMICO CON LA CINA

Guerre a parte, il vero scontro sistemico del XXI secolo resta quello con la Cina. E secondo il professor Del Pero il disaccoppiamento (decoupling) è già in atto. Altro che semplice de-risking, quindi. Il grande piano di Biden riferito all’indebolimento dell’influenza pechinese è stato l’Inflation Reduction Act. L’obiettivo è promuovere “politiche di reindustrializzazione, politiche di integrazione regionale dei propri alleati. Approfondire le interdipendenze regionali, le forme di integrazione regionale per deglobalizzare”. Secondo Washington, allargare i mercati ha finito per favorire il Dragone, meglio tornare all’industria nazionale. Problema: l’Europa è pronta a seguire l’America sulla scia del disaccoppiamento della propria economia da quella cinese? La Germania sembra voler dire di no”, ammette il professore di SciencePo. D’altronde, gli scambi commerciali tra Cina e Germania sono letteralmente esplosi negli ultimi dieci anni.

Eppure, “quella anti-cinese è tra le poche politiche veramente bypartisan”, oltreoceano. A livello geopolitico, su Taiwan ma non solo, le aspirazioni cinesi aumentano. Ma internamente il regime di Xi Jinping è ancora alle prese, fa notare Del Pero, con la crisi immobiliare, cui è connessa l’incapacità della Repubblica popolare “di promuovere uno sviluppo basato più sui consumi che sugli investimenti. Però il regime sembra essere titubante ad agire sulla leva del risparmio. Aggiungiamo poi che parte di questi risparmi sono stati dirottati sull’immobiliare, la cui bolla speculativa è esplosa da tempo”. Insomma, anche qui capire gli sviluppi è un compito arduo.

Rientrando nei confini americani, che aria tira sulla politica interna? Come noto ai più, il voto per la Casa Bianca spesso si gioca sui temi economici, ma non solo. Inflazione, posti di lavoro, salari: sono questi gli indici di riferimento, e nel caso dell’amministrazione Biden il vero dilemma non riguarda tanto la loro specifica crescita da perseguire, bensì lo scarto tra i dati macroeconomici e la percezione popolare.

REINDUSTRIALIZZAZIONE E INFLAZIONE, I DUE POLI DELL’ECONOMIA

Del Pero ricorda tra i tanti il Michigan Consumer Sentiment e spiega che anche in materia economica c’entra la polarizzazione politica. “I due blocchi non riconoscono come legittimi i programmi dell’altro”. Tra Democratici e Repubblicani, infatti, vige una relazione di “nemicizia”, più che di mera rivalità politica. “La controparte è considerata un pericolo per la propria concezione di quello che gli Stati Uniti dovrebbero essere”. Ma restando sui numeri, a prescindere dagli ottimi risultati della cosiddetta Bidenomics, esiste comunque un problema legato ai prezzi, all’inflazione. “Soprattutto nella cosiddetta home food, l’alimentazione di base che include pane, latte e uova, e in secondo luogo l’energia”, spiega Mario Del Pero. Che, concludendo il ragionamento con una pillola storica, aggiunge che sarà difficile vedere un significativo miglioramento entro novembre di questi indici appena citati, soprattutto perché dopo la crisi del 2008 è in linea di massima terminata per sempre “l’era del Bengodi degli Usa”. Niente più Paese dei Balocchi dove l’immobiliare era il collateral per favorire maggior indebitamento.

Dunque, neppure un ritorno di Trump riuscirebbe a risolvere tutti questi nodi, divenuti ormai strutturali oltreoceano. “Anche perché ricordo a tutti che è sostanzialmente falso il mito diffuso in Italia della working class che ha votato il Tycoon nel 2016”, chiarisce il professore. Trump, al contrario, è stato scelto da persone con redditi alti e altissimi, dai super ricchi, dalle famiglie bianche che desiderano una finanza deregolamentata. E ha vinto grazie alle grandi donazioni al Grand Old Party.

IL PESO SUL VOTO DELLA CRISI MIGRATORIA

Piuttosto, allora, l’ex presidente sconfitto appena quattro anni fa, può tornare a guidare la prima superpotenza mondiale sfruttando la perenne crisi migratoria. “E’ il vero cavallo elettorale vincente dei Repubblicani, la maggior debolezza dei Democratici”, sancisce Del Pero. Sui flussi ha inciso la pandemia, ovviamente, ma anche le ingenti migrazioni dal Venezuela, da Haiti. E la crisi si è estesa anche alle grandi città. In questo, aggiunge il professore di SciencePo, i Repubblicani sono furbi perché “cavalcano il tema in modo strumentale, collegandolo ad altre emergenze. Su tutte quella della microcriminalità urbana di ritorno”.

Il calderone che si crea è quello della paura. Dal lato dei Democratici, invece, i temi vincenti sono l’aborto e Trump stesso. Nel primo caso, perché i diritti della donna sono particolarmente sensibili e lo restano nonostante i numerosi dietrofront conservatori di Stati come il Texas, l’Alabama o la Florida. E per Del Pero anche le donne più moderate potrebbero votare democratico a novembre prossimo, spaventate da una linea radicale dei repubblicani su questo tema. Su Trump, invece, il vantaggio dei Democratici riguarda il cosiddetto fattore di mobilitazione alle urne. “I Democratici sono strutturalmente maggioritari nel paese”, spiega Del Pero. “Sono più eterogenei politicamente, ideologicamente, anche demograficamente, e le minoranze sono molto più rappresentate”. Ecco perché lo “spauracchio Trump” può galvanizzare tutte queste fasce sociali e mobilitarle, spingerle ad andare a votare. Specie adesso che i dubbi legati al voto di un candidato molto anziano sono svaniti con la rinuncia di Joe Biden. Anche qui, incide il fattore paura.

Infine, non possiamo non concludere con Mario Del Pero toccando il tema infuocato delle università. Ben presente, come gli altri, nel dibattito americano ma anche europeo, sebbene con tinte e in contesti diversi. Il professore si dice piuttosto critico sulle esagerazioni anti-woke che si stanno rappresentando. “No, i campus americani non sono luoghi dove sta avvenendo una degenerazione culturale”. Questo non significa che le ossessioni, per esempio per il linguaggio e il politicamente corretto, non si siano sviluppate. “Il problema c’è e da docente, io non mi sento più totalmente leggero nel fare una battuta, perché rischierebbe di essere fraintesa”. Ma questo problema riguarda una minoranza radicalizzata, sottolinea Del Pero. Che ricorda, infine, come le guerre culturali non sono nate certo in questi ultimi tempi. Ci sono sempre state. Il problema vero è che vengono strumentalizzate dalla politica.

(Articolo pubblicato sull’ultimo numero del quadrimestrale di Startmag)

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