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Giorgetti

Stati Generali o palude?

Fini e incognite degli Stati Generali. I Graffi di Damato

Più di due secoli non sono passati invano. Gli Stati Generali dei quali si è innamorato Conte non gli  costeranno la testa, ghigliottinata invece al povero Luigi XVI. Ma il trono non so francamente se riuscirà a conservarlo il presidente del Consiglio al termine del lungo percorso che ha avviato e  si protrarrà in altro modo ben oltre i 10 giorni programmati.

Non ci scommetterei più di tanto, nonostante le opposizioni di centrodestra stiano messe forse anche peggio della maggioranza giallorossa: fra Silvio Berlusconi che dice una cosa e magari ne pensa un’altra, e ne fa dire un’altra ancora al collaboratore o maggiordomo di turno, a giorni e persino ore alternate. Nè dei suoi ancora formali alleati spesso si riesce francamente a capire perché continuino ogni tanto a incontrarsi e a presentarsi insieme, con o senza le loro mascherine d’ordinanza, davanti alle telecamere.

Il fatto è che all’interno della coalizione giallorossa — o giallorosa, come preferiscono vederla e rappresentarla altri — è peggiorato non tanto il rapporto di Conte con i grillini, col cui “travaglio” egli si è in qualche maniera abituato da quando è cominciato con la scoppola delle elezioni europee dell’anno scorso, quanto il suo rapporto col Pd.  Che è un partito meno rappresentato in Parlamento del Movimento 5 Stelle ma più solido politicamente e più collegato con parti della società senza le quali non si governa seriamente il Paese: un partito dove non c’è un comico che possa d’incanto far finire la ricreazione con una parolaccia o con una battuta d’avanspettacolo.

Il guaio, per Conte, e per “il caravanserraglio di superficialità e di comunicazione imbonitrice senza precedenti” che gli ha appena rimproverato sul Corriere della Sera Mario Monti, è che è via via maturato nel Pd il timore che la collaborazione con i grillini  cominci a costare un po’ troppo a ciò che resta del Pci e della sinistra democristiana. Le cui percentuali elettorali, dai voti locali ai sondaggi, si aggirano fra poco meno e poco più del 20 per cento. E ciò con due aggravanti che, come spesso accade in politica, anziché placare gli animi e consigliare prudenza agitano di più gli animi e scatenano vecchie e nuove ambizioni personali.

La prima aggravante è costituita dalle dimensioni non grandi ma enormi della crisi economica e sociale in arrivo in autunno per effetto dei danni già procurati dall’epidemia virale, e di quelli che potrebbero derivare da una stagione turistica costretta a volare a bassa quota. La seconda aggravante è la crescente delegittimazione cui è condannato il Parlamento dall’altissimo prezzo che il Pd ha dovuto pagare ai grillini per subentrare ai leghisti nella maggioranza: l’improvvisa conversione alla riduzione del numero dei parlamentari, perseguita dal movimento pentastellato in una logica non di efficienza ma semplicemente e dannatamente antiparlamentaristica.

Una volta che questa presunta riforma supererà in autunno il referendum confermativo, praticamente a metà legislatura, il Parlamento varrà agli occhi dell’opinione pubblica, direi internazionale oltre che italiana, ancor meno di adesso, dopo le dimensioni più di facciata che di sostanza del partito pentastellato di maggioranza. E varrà ugualmente meno, per questa stessa ragione, il  nuovo Presidente della Repubblica  che verrà eletto nel 2022. Il cui potere prevalente è quello della cosiddetta persuasione morale.

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