Gli antichi ateniesi non votavano per eleggere le cariche: le sceglievano con il sorteggio. Grazie alla sorte (che era pur sempre una divinità), potevano far parte della “Boulé” anche cittadini che non avevano i mezzi per comprarsi il consenso (ad esempio, finanziando feste sontuose). Composta da 500 membri (almeno dalla riforma di Clistene in poi), la “Boulé” deteneva il potere legislativo, controllava l’operato delle magistrature e sorvegliava il bilancio dello Stato.
La “macchina delle elezioni” si chiamava “klerotérion”. Era costituita da una lastra di pietra con diverse fessure regolari in cui venivano inserite le schede dei candidati (i “pinakia”). Accanto alla sezione delle schede si trovava un tubo pieno di cubetti di vario colore. Ogni cubetto usciva a caso, e sulla base della sua colorazione definiva fila e numero delle tessere. Per esclusione, l’unica tessera che rimaneva era quella del prescelto. Un procedimento sicuramente lungo e complesso, ma che aveva il vantaggio di ridurre al minimo (se non di azzerare) la possibilità di brogli.
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Fino al 1924 l’élite liberale italiana sosteneva che il fascismo era un fenomeno barbaro ma utile, perché reagiva alle spinte socialcomuniste dell’epoca. Ne sottovalutò la carica eversiva, e solo dopo il delitto Matteotti e la soppressione della libertà di stampa Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Luigi Albertini e Giovanni Giolitti se ne staccarono. Ma ancora pochi mesi prima, il 27 ottobre 1923, in un’intervista al Giornale d’Italia intitolata “Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo”, lo stesso Croce negava l’esistenza di differenze sostanziali fra i due paradigmi, liberale e fascista.
E lo faceva sulla base della concezione secondo cui le forme politiche sono astrazioni, le quali coprono la costante e concreta realtà delle minoranze governanti in ragione della maggiore “forza” che esse riescono a dispiegare. Il fascismo veniva dunque giustificato in quanto movimento privo di alternative, unico soggetto capace di mantenere un governo, uperando la “paralisi parlamentare del 1922”. Era cioè il “soggetto che energicamente vince la gara liberale con gli altri soggetti in competizione”. Purtroppo, allora non aveva previsto l’eventualità della soppressione della gara stessa.
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Forse qualcuno ricorda queste parole: “Care amiche e cari amici del Movimento 5 Stelle, lo straordinario risultato del voto amministrativo attribuisce al vostro Movimento una grande responsabilità: dare un contributo decisivo alla principale battaglia democratica che aspetta il Paese, cioè il referendum costituzionale […]”. È l’incipit dell’appello lanciato nel giugno 2016 da “Libertà e Giustizia” (Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky, Nadia Urbinati e altri) per costruire, nelle piazze e nella rete, “un’opposizione popolare ad una revisione costituzionale divisiva e imposta da un parlamento delegittimato”. E, per affermare le ragioni del No, “il ruolo del Movimento appare cruciale”.
Già allora quelli del “guai a chi tocca la Costituzione” facevano finta di non sapere, per ragioni di pura convenienza di schieramento, che i pentastellati erano fautori della democrazia diretta e contro il principio del libero mandato voluto dai padri costituenti. Ma che importa? Infatti, per Zagrebelsky e soci era “vitale che il primo partito d’Italia sappia guardare all’interesse della Repubblica: mostrando senso di responsabilità, lungimiranza e amore per le istituzioni e il bene comune dei cittadini”. Sono gli stessi che adesso gridano “guai ai vinti!” e chiedono al Pd di donare il sangue all’Avis di Luigi Di Maio.
Qualcuno ricorda “Il tradimento dei chierici” di Julien Benda? Nel 1927 lo scrittore francese se la prendeva con i rappresentanti di quella corporazione intellettuale che fa politica al riparo della sua presunta superiorità e imparzialità. Dopo quasi un secolo, da noi c’è chi non ha ancora perso questo vizietto.