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Chi ha vinto e chi ha perso in Siria

Le dinamiche geopolitiche in Siria che hanno condotto all'uscita di scena di Assad. Estratto di un approfondimento di Manlio Graziano per Appunti, la newsletter di Stefano Feltri.

All’inizio della rivolta del 2011, la Turchia era il modello degli insorti: un Paese musulmano, democratico e in rapido sviluppo economico. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan si sarebbe accontentato di quel ruolo e, d’altra parte, quella carta si stava svalutando in seguito alle trattative con i curdi di casa propria per una soluzione politica del conflitto.

Con l’inizio della guerra civile e soprattutto con il colpo di Stato in Egitto del 2013 – che ha sancito l’atto di morte delle «primavere arabe» – una delle due gambe su cui poggiava la strategia politica di Erdoğan e del suo allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu è crollata. L’altra, e di gran lunga più importante – l’accesso all’Unione europea – era stata eliminata dal veto francese.

Così, i curdi sono tornati a fare da oggetto della discordia. Da allora, Ankara non ha cessato di rivendicare il controllo di una fascia di territorio siriano al confine con la Turchia, occupato precisamente da milizie curde sostenute dagli Stati Uniti durante la guerra contro il cosiddetto «Stato islamico». Nel 2019, nel timore di alienarsi Ankara, gli Stati Uniti le hanno dato un parziale via libera, sacrificando una parte del territorio controllato dai curdi cui avevano promesso protezione.

Come si vede nella cartina che segue, risalente al luglio scorso, il regime siriano era puntellato essenzialmente dalla presenza militare russa e iraniana (territori in arancione), mentre i turchi occupavano, direttamente e attraverso i propri affiliati islamisti e laici, alcune zone di frontiera al nord, tra cui l’area di Idlib, da cui è partita l’offensiva dei giorni scorsi.

siria

Gli iraniani erano da lungo presenti in Siria, con lo scopo di estendere la cosiddetta «mezzaluna sciita», quell’arco di territori che va dall’Iran al Mediterraneo passando per il nord dell’Iraq.

Con una disinvolta forzatura teologica, la guida suprema di Teheran riconosceva come sciita l’alawismo, una stravagante setta sedicente musulmana che rappresenta poco più di un decimo della popolazione siriana e a cui appartengono la famiglia Assad e i suoi più fedeli sostenitori.

Come truppe di complemento, Teheran aveva mandato in Siria alcune milizie sciite reclutate in Iraq, Afghanistan e Pakistan, più il fedelissimo alleato libanese, Hezbollah.

I russi, invece, erano arrivati in forze nel 2015, essenzialmente per proteggere dall’avanzata dello «Stato islamico» le due sole basi militari rimastele nel Mediterraneo dopo il disfacimento dell’URSS – Latakia e Tartus.

Per capire meglio cosa stia succedendo oggi, è bene disfarsi di certe facilonerie mediatiche, secondo le quali la Russia e l’Iran, sostenendo lo stesso regime, erano alleati, così come lo sono contro l’Ucraina.

Ma due paesi possono essere alleati su un fronte e nemici su un altro fronte (come gli Stati Uniti e l’URSS in Europa e nel Pacifico nella Seconda guerra mondiale); e possono sostenere la stessa causa proprio perché sono ostili l’uno all’altro (come la Gran Bretagna e la Russia all’epoca della rivoluzione greca nel 1821-1829).

Al di là dei salamelecchi diplomatici, la Russia e l’Iran erano in concorrenza tra di loro in Siria. La prova viene da Israele: prima del 7 ottobre, Netanyahu vantava ottimi rapporti con Putin proprio perché gli permetteva di fare ogni tanto delle incursioni puntuali in Siria per colpire obiettivi militari pro-iraniani o direttamente iraniani.

Alla crisi russa e di Hezbollah si aggiunge quella del regime di Teheran, sempre più fragile e insicuro, e da oggi forse anche terrorizzato all’idea che gli ayatollah possano presto finire anch’essi su un aereo in direzione di Mosca (nella migliore delle ipotesi).

L’Iran è il grande sconfitto di questa fase storica, ma non è da escludersi che possa essere salvato proprio dai suoi nemici più virulenti: Israele ne ha bisogno come minaccia per mantenere la coesione interna; l’Arabia Saudita ne ha bisogno per tenersi una carta di riserva aspettando l’incognita Trump; gli Stati Uniti, ma soprattutto gli alawiti e i curdi, ne hanno bisogno nel caso in cui la Turchia spingesse sull’acceleratore e, magari, un regime teocratico sunnita si instaurasse a Damasco, la storica capitale del califfato omayyade.

Se Teheran ha sicuramente perso, se Mosca ha sicuramente perso, Ankara ha forse vinto? Non c’è dubbio che la Turchia abbia vinto una battaglia; ma la guerra? Per la Siria si apre una fase in cui tutte le forze si rimettono in movimento, e tutte le forze sono attraversate da ostilità reciproche, e sono sostenute da padrini esterni con altrettante, se non più forti, ostilità reciproche.

I curdi detengono attualmente 56.000 ex-combattenti dello Stato islamico in 29 campi da loro gestiti nel nord-est della Siria, tra cui 11.500 uomini e 14.500 donne, maltrattati, torturati e uccisi, secondo un rapporto di Amnesty International dell’aprile di quest’anno.

Questi prigionieri sono un’assicurazione vita per i curdi, soprattutto nei confronti degli americani del dopo 20 gennaio. Una loro eventuale liberazione potrebbe rimescolare tutte le carte nella regione, e avere gravi ripercussioni internazionali.

Insomma, come l’apprendista stregone, Ankara ha evocato forze oscure, ma è assai improbabile che riesca a tenerle sotto controllo. La Russia ha perso un altro fronte e si vedrà come farà a restare a Tartus e Latakia. L’Iran è sempre più isolato. Il futuro presidente americano afferma che il suo paese deve chiamarsi fuori.

In pochi giorni si sono concentrati molti anni di storia, e molti altri si concentreranno nei giorni a venire.

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