«Ciò che non mi uccide, mi rende più forte». Chissà se ieri pomeriggio, mentre dal Viminale e dai seggi giungevano i dati del bassissimo afflusso ai seggi, il pensiero di Giorgia Meloni è corso alle parole di Friedrich Nietzsche, filosofo caro alla destra che fu. Che lo abbia fatto o meno, il fallimento dei cinque referendum sul lavoro e la cittadinanza è un fatto politico prima ancora che aritmetico. Neanche la manifestazione nominalmente su Gaza – forzatura della lettera e dello spirito della legge che impone il silenzio politico nelle ore precedenti l’apertura dei seggi – è servita a raggiungere il quorum. L’affluenza si è fermata al 30 per cento e c’è da scommettere che i dati sui singoli quesiti saranno ancora più bassi.
Addio alla massa
In assenza di una vera mobilitazione di massa, il progetto si rivela per quello che era: un tentativo, riuscito solo a metà, o forse anche meno, di contarsi. Un mega-sondaggio, a spese degli italiani, chiamati a spendere decine di milioni di euro per temi che non li convincevano né appassionavano.
Nelle scorse settimane, pezzi rilevanti della sinistra politica e sindacale avevano costruito una narrazione simbolica in cui Gaza fungeva da Vietnam mediterraneo. La battaglia referendaria doveva rappresentare, per alcuni, un atto di resistenza contro il governo e, per altri, la ricostruzione di un’identità collettiva per i pezzi sconnessi di una sinistra in cerca di una proposta spendibile.
Il voto, tuttavia, sembra smentire entrambe le ipotesi.A conti fatti, i promotori non sono riusciti a spostare l’asse del dibattito né a stimolare una partecipazione significativa. Prosaicamente, la realtà suggerisce che il legame tra diritti sociali e geopolitica emozionale non ha attecchito.
Le prime interpretazioni
In attesa che il “campo largo” metabolizzi il “voto stretto”, si possono formulare le prime interpretazioni.
Dal punto di vista dell’esecutivo, il mancato quorum rafforza la tenuta del governo. Le ipotesi di crisi, che da settimane rimbalzano nei giornali più attenti agli equilibri interni della maggioranza, sembrano allontanarsi. Il voto referendario non ha inciso, né nei numeri né nel clima. Il governo prosegue. A metà agosto Meloni supererà in durata l’esecutivo Renzi e si avvicinerà al terzo posto tra quelli più longevi della storia repubblicana. In ottobre raggiungerà Craxi, piazzandosi alle spalle di Berlusconi. Prima osservazione: tre su cinque dei governi di maggior durata sono già ora ascrivibili all’area moderata e gli altri due al centrosinistra non populista e non comunista.
Specularmente, il fallimento referendario è anche un segnale per l’opposizione. Più che una sconfitta numerica, assistiamo a una certificazione dell’incapacità di mobilitare cittadini attivi. Il linguaggio delle piazze, un tempo familiare, appare oggi inaccessibile. In particolare, esce ulteriormente indebolito il sindacato: logorato dal calo di iscritti, sotto pressione nei luoghi di lavoro, e ora privo anche del ruolo aggregante di un tempo nelle battaglie civili.
Che fare?
Se le persone mobilitabili per ogni causa politicamente corretta conoscessero un po’ di storia – tout court, non solo della sinistra -, sarebbe forse il caso che ponessero alla loro leadership (chiedo scusa per il termine azzardato) di rispondere alla domanda di Lenin: “Che fare?”.
Se si intende costruire una vera alternativa, sarebbe necessario interrogarsi non tanto su Gaza o sul lavoro in astratto, non tanto su vecchie logiche di complotto (Mattei! Ustica! Moro!) quanto su quali temi riescano a intercettare davvero la sensibilità dei cittadini di oggi. Sarebbe il caso di uscire dai salotti e dai talk show nei quali ci si confronta solo tra amici, colleghi e giornalisti compiacenti, per cercare di capire che il mondo non è più quello del 1946 o anche solo del 1990, quando il recente crollo del Muro di Berlino fu inteso da qualcuno come crollo della pregiudiziale anticomunista e dunque come rimozione dell’unico ostacolo all’ascesa al potere dei “migliori”.
Senza questa presa di coscienza, in sé già tardiva, la sinistra continuerà a parlare a un elettorato che non c’è mai stato o che, nella migliore delle ipotesi, ha già voltato pagina. Nell’attesa, Meloni ogni sera accende un cero a Schlein, la miglior assicurazione sulla vita che un governo di centro-destra potesse chiedere.