Questa vicenda dell’Albania rischia di trasformarsi in una trappola micidiale. Che non andrà a discapito delle sole forze politiche italiane, ma dell’intera Nazione. Che rischia di perdere gran parte di quella credibilità che era riuscita a conquistarsi, con grande fatica (si pensi agli spread), nei mesi precedenti. Il dato del contendere è noto. Da una parte un pugno di magistrati decisi nel rivendicare la propria concezione del diritto. Dall’altra l’intera coalizione governativa, costretta a mantenere il punto. Per onorare il proprio programma, votato dalla maggioranza degli elettori. E nel mezzo un errore, almeno a giudizio di chi scrive, grossolano.
Tutto era nato da una cattiva lettura della sentenza della Corte di giustizia nei confronti di CV: il cittadino moldavo che si era opposto al mancato riconoscimento, da parte di un tribunale ceco, della sua domanda di protezione. Nell’accogliere il ricorso la Corte aveva stabilito che un Paese poteva considerarsi sicuro, solo se tale era l’intero Paese. Nessuna zona franca, quindi. E nessuna eccezione per particolari categorie sociali. Come avrebbero potuto essere soggetti LGTB+, etnie perseguitate, oppositori politici e via dicendo.
Queste giuste precisazioni, frutto delle norme contenute nelle Direttive europee più recenti (32 del 2013), erano state rese nel corso di un procedimento giudiziario (il ricorso appunto) presentato da un soggetto in carne ed ossa, che si era visto rifiutare il riconoscimento di rifugiato dalla Corte regionale di Brno, nella Repubblica Ceca. Ovviamente l’oggetto del contendere era se ed in che modo la “Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati” dovesse essere applicata.
Il primo punto della sentenza del 4 ottobre precisa che “«[a]i fini della presente Convenzione, il termine “rifugiato” si applicherà a ogni persona che, (…) nel timore fondato di essere perseguitata per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Stato; (…)». Qual è il significato? Il giudice non può prescindere dalle condizioni effettive dell’istante. La discriminazione denunciata, in altre parole, non può essere teorica o eventuale, ma effettiva (un “timore fondato”). Solo allora potrà essere considerato un “rifugiato” e non un semplice “clandestino”.
È stata condotta a termine questa indagine sui dodici migranti trasportati, come un pacco postale, per ordine dei giudici romani, tra l’Albania e l’Italia? Non lo sappiamo. Ma le cronache sembrerebbero escluderlo. Come risulta difficile capire il ricorso preventivo dei giudici di Bologna, contro il decreto del Governo sull’individuazione dei Paesi sicuri. Decreto che non aggiunge e toglie alcunché alla sostanza della legislazione in essere. Mutandone solo la forma, con un effetto comunicativo, indubbiamente, più potente.
L’interpello preventivo, inviato alla Corte di giustizia europea, è poco più di acqua fresca. C’è forse qualche dubbio sulla primazia del diritto europeo? Basta rileggere l’articolo 11 della nostra Costituzione, secondo il quale l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessaria ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”. Senza contare poi che la Direttiva UE n. 32 del 2013, che rappresenta il fondamento giuridico dell’intera vicenda, è stata recepita, nella legislazione italiana, con il decreto legislativo n. 142 del 2013.
Il nuovo decreto legge sui “Paesi sicuri” (n.158 del 23 ottobre 2024) incide su quelle disposizioni? Non sembrerebbe, tanto più che la nozione stessa di “Paese sicuro” non può prescindere dalla situazione effettiva del singolo Stato. Che può cambiare anche rapidamente, per cui il giudice chiamato in causa può stabilire che, nel frattempo la situazione è mutata. E che quindi Paesi fino a ieri ritenuti sicuri, oggi non lo sono più. Ma per arrivare ad una simile conclusione il ricorrente deve motivare l’eventuale istanza di sospensione. Collegando strettamente i profili di “rifugiato/clandestino” ai pericoli reali (“timore fondato”) ch’egli correrebbe qualora fosse costretto ad essere rimpatriato.
Se qualcuno ritiene che la Corte di Giustizia si lascerà coinvolgere nella querelle “Paese sicuro/Paese non sicuro” è completamente fuori strada. Non è questo il compito della giurisdizione, che deve fare giustizia e non politica. Verificare cioè se esiste un pericolo reale, non in astratto, ma effettivo ed incontrovertibile, che riguarda il soggetto richiedente asilo. E non attribuire patenti ai singoli Stati: prerogativa, quest’ultima che spetta, appunto, alla politica. Com’era in precedenza (Decreto degli Affari Esteri del 7 maggio 2024) e, a maggior ragione oggi, dopo il nuovo decreto legge, varato dal Governo.
Tanto per essere più chiari, se un richiedente asilo è in grado di dimostrare di essere un perseguitato, sia per motivi religiosi, etici, politici o sessuali, in Paesi che praticano la logica della discriminazione, ha diritto ad essere considerato un rifugiato politico. Anche se quel Paese era considerato “sicuro”. Ma se questa relazione non esiste o non può essere provata, allora tutto cade e nessun giudice, rispettoso delle proprie prerogative, dovrebbe tentare inutili forzature.
Da parte dell’Avvocatura generale dello Stato il ricorso in Cassazione, avverso all’ordinanza del Tribunale della sezione immigrazione di Roma circa il rilascio dei 12 migranti inizialmente trasportati in Albania, aveva motivazioni che avvalorano la tesi precedentemente sviluppata. “Il Tribunale” di Roma – questa l’obiezione – aveva “omesso del tutto di indicare le ragioni che l’hanno indotto a ritenere che l’odierno intimato si trovasse nella situazione che giustificasse la disapplicazione del designazione del suo Paese di provenienza come Paese di origine”.
“Nella motivazione dell’ordinanza in epigrafe – aveva aggiunto – manca, dunque, una reale valutazione del caso di specie all’esame del Tribunale, che si è limitato a svolgere una serie di considerazioni astratte in diritto, senza confrontarsi con la fattispecie concreta e in particolare con la verifica dell’appartenenza o meno del richiedente alla categoria di soggetti che risulterebbe “a rischio” nel Paese di provenienza”.
Per concludere, infine, la stessa Avvocatura proponeva la “remissione” della questione “alle Sezioni Unite” della Corte di Cassazione “in modo di pervenire quanto prima a una interpretazione che scongiuri l’ulteriore moltiplicarsi di un contenzioso seriale ed una situazione di incertezza interpretativa tale da pregiudicare il buon funzionamento dell’attività amministrativa di governo del flusso di migranti e dell’esame delle domande di protezione internazionale”. Cose di buon senso.
L’istanza dell’Avvocatura porta la data del 21 ottobre, il rigetto da parte della Cassazione è del 31 ottobre, con rinvio della questione all’udienza pubblica del 4 dicembre. Nel frattempo, la pubblicazione del decreto legge n. 158, buttava altra benzina sul fuoco, offrendo l’occasione ai Giudici di Bologna di presentare un interpello preventivo alla Corte di giustizia europea. Decisione che lascia un po’ basiti. Come se non fosse più giusto, come dice un vecchio proverbio, che i panni sporchi fossero lavati in famiglia.
Ma purtroppo non è ancora finita. Proprio oggi (ieri) è sceso in campo il CSM proponendo l’apertura di una pratica urgente a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia del collegio giudicante del tribunale di Bologna, come riporta un’agenzia ANSA, contro le “dichiarazioni polemiche di titolari di altissime cariche istituzionali”. È l’alimentare ulteriormente uno scontro senza senso, invece di ricercare il necessario equilibrio. Specie se si considerano i dubbi, in punta di diritto, che le diverse sentenze non hanno certo debellato.