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Schlein si aggrappa a Prodi

Mosse, parole e speranze di Elly Schlein, segretaria del Pd. I Graffi di Damato

Fra le “scintille” viste dal Corriere della Sera, l’”assalto” alla Schlein gridato da Repubblica, l’”alta tensione” avvertita dalla Stampa, lo “scontro aperto” preferito dal Messaggero, vi è stata una gara fra i cosiddetti giornaloni, casuale o non, a coinvolgere la segretaria del Pd come controparte nella festa politica e mediatica realizzata da Giorgia Meloni col nome di Atreju all’ombra di Castel Sant’Angelo.

Nel raduno di quest’anno del partito della destra italiana Flavia Perina sulla Stampa, con un certo compiacimento che ha tradito la sua passata esperienza di direttrice del Secolo d’Italia, ha peraltro ritrovato non a torto “le dimensioni democristiane”. Di una Dc di cui ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla chiusura disposta da Mino Martinazzoli riesumando la denominazione di “Partito Popolare”: quello dei “liberi e forti” di don Luigi Sturzo.

A parte il discorso, pur non irrilevante, sulle “dimensioni” – ripeto – del partito che la Meloni ha saputo portare in testa nella graduatoria elettorale e politica italiana, in realtà non vi è stato confronto tra la festa della premier, alla quale la segretaria del Pd si è sottratta con orgoglioso ma forse sfortunato rifiuto, e quella che la Schlein ha voluto contrapporle riunendo – come ha scritto qualche cronista – “la vecchia guardia” del Pd. Che è stata comprensiva, per la prima volta da ex segretario del partito, di Enrico Letta ma guidata, non foss’altro per ragioni anagrafiche, da Romano Prodi. Il quale rimane nella storia della cosiddetta seconda Repubblica l’unico riuscito a battere elettoralmente per due volte il centrodestra realizzato nel 1994 da Silvio Berlusconi.

PRODI AFFIDA IL CAMPO LARGO A SCHLEIN

È stato proprio Prodi in questo raduno di reduci a investire la Schlein della qualifica, funzione e quant’altro di potenziale “federatrice” di quello che con lui furono “l’Ulivo” prima e “l’Unione” poi, e con lei dovrebbe essere il famoso “campo largo” comprensivo di ciò che resta del movimento grillino sotto la guida di Giuseppe Conte. Ma lo stesso Prodi ha depotenziato questa investitura ricordando “i sei milioni di voti perduti” dal Pd per strada in pochi anni e le resistenze di Conte a lasciarsi federare dalla Schlein. Che gli sta elettoralmente davanti di così pochi punti o addirittura decimali da considerarne realistico il sorpasso. Nel cui caso figuriamoci se l’avvocato di Volturara Appula, terra una volta di avvoltoi, sarà mai tentato dall’idea di fare il numero due.

La Meloni invece ha concluso la sua festa con la plastica conferma fotografica della propria leadership di coalizione, al centro fra i suoi due vice presidenti del Consiglio, il leghista Matteo Salvini e il forzista Antonio Tajani, per quanto rappresentati un giorno sì e l’altro pure da retroscenisti e simili come insofferenti, a dir poco. Le foto, si sa, servono anche a comporre album. E quello della Meloni ornai è abbastanza folto, anche a quel livello internazionale da lei di recente rimproverato infelicemente al predecessore Mario Draghi.

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