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Salvini, Macron e i tram bossiani

Il caso Salvini-Macron fra cronaca e storia. La nota di Sacchi

“Taches al tram” lo disse un Umberto Bossi ancora al top a Ciriaco De Mita a “Porta a Porta” di Bruno Vespa molti anni fa. La cronista, rimasta tra i non molti in Transatlantico che conobbero i big della cosiddetta Prima Repubblica, non ricorda bene se De Mita sorrise, ma probabilmente sì. L’ex capo Dc, acerrimo avversario di Bettino Craxi, la cronista lo conobbe solo verso la fine della sua parabola politica. Essendo sul piano delle idee più vicina a Craxi che a lui, gli chiese una volta con garbata sfacciataggine che cosa pensava della drammatica morte in esilio del suo ex avversario politico. A De Mita si arrossarono gli occhi. Pausa interminabile, mise la mano intorno alla spalla della cronista e disse: “Bettino non se la meritava quella fine…”.

Tutta questa premessa per andare al punto sullo spessore anche umano di un leader, colto e spiritoso, che non era capo di stato straniero come Emmanuel Macron, ma che forse qualcosa da insegnare quanto a senso della misura e umiltà l’avrebbe ancora oggi al leader francese. Attaccati al tram, infatti, non sarà il top del linguaggio della diplomazia, ma come ha già spiegato Matteo Salvini, allievo di Bossi, vicepremier e ministro delle Infrastrutture e Trasporti, che ha salvato la Lega dalla sua estinzione, non è un’offesa. Ma è dialetto della sua Milano. Salvini ha voluto solo ribadire con nettezza (“Con fermezza e gentilezza”, ribadisce la Lega) al presidente francese che se vuole mandare soldati in Ucraina lo faccia per conto suo. Punto.

Come ha ricordato sempre la Lega in una nota, offensive invece furono le parole usate da un portavoce del partito di maggioranza di Macron che definì “da vomitare” le politiche contro l’immigrazione clandestina del governo Conte/1 dove ministro dell’Interno era Salvini. Politiche il cui risultato fu una drastica riduzione degli sbarchi e per le quali ancora oggi Salvini è sotto la graticola dell’offensiva giudiziaria dei Pm di Palermo che hanno fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione in primo grado perché il fatto non sussiste, la formula più ampia possibile, del vicepremier, ministro e leader leghista.

Ecco, De Mita non fece con Bossi “il permaloso” come invece secondo Salvini fa Macron, “con toni bellicisti”. E “Ciriaco” da capo di partito si occupava certamente anche di politica estera. Un leader di partito che non si occupa anche di politica estera è cosa che non esiste. Valeva nella cosiddetta Prima Repubblica e vale anche oggi. Tanto più se si è anche vicepremier in un momento così drammatico sulla scena mondiale.

Antonio Tajani, a sua volta vicepremier, capo della Farnesina e leader di Forza Italia, ricorda che “la politica estera la fanno il premier e il ministro degli Esteri”. Ma Tajani sa anche bene che la politica estera è centrale nell’agenda di un leader di partito. Perché anche se non siamo più nel proporzionale della cosiddetta Prima Repubblica i partiti continuano ad essere parte integrante del nostro bipolarismo. E il centrodestra, la cui unità è il grande valore aggiunto rispetto agli avversari, non è un partito unico, ma una coalizione.

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