Con il passare dei giorni, grazie anche all’azione avventurosa di tanti putiniani nostrani, il disegno del Cremlino, appare sempre più chiaro. Lo schema seguito é come se Yalta fosse ancora in piedi. Nelle rispettive ex zone d’influenza – quella occidentale e quella della vecchia Unione sovietica – ciascuno può comportarsi come meglio crede, senza che l’altro schieramento possa minimamente eccepire. Gli occidentali, ma soprattutto americani, inglesi e francesi, hanno avuto mani libere in Iraq, contro Saddam; in Afghanistan contri i talebani; in Libia contro Gheddafi, senza che i russi muovessero ciglio. Nemmeno quando la missione, come nella ex Jugoslavia, era stata particolarmente dolorosa, per le potenti oligarchie russe: protettrici del popolo slavo fin dai tempi della Prima guerra mondiale.
Ergo: a rompere quel patto di non belligeranza – dicono a Mosca – sono stati gli europei e gli americani, con le loro interferenze in un teatro, come quello dell’Ucraina, che non é una nazione, ma una semplice appendice territoriale della Russia. Teorie immediatamente diffuse in Italia grazie all’azione di tanti giornalisti e politici folgorati dall’idea di essere “costruttori di pace”. Ma forse più prosaicamente convinti che fosse più utile lisciare il pelo di un’opinione pubblica che, anche giustamente, sente, a fior di pelle, i pericoli della guerra. Operazione di un qualche azzardo, stando almeno ai risultati dell’ultima tornata elettorale amministrativa.
Se questa teoria in quel di Mosca può avere una certa suggestione, in Italia le sue conseguenze non possono che avere un segno completamente diverso. Coloro che si battono per limitare l’invio di armi a Zelensky, infatti, non fanno altro che accettare l’idea che il mondo debba essere ancora diviso in zone d’influenza a “sovranità limitata”. E che quindi non solo sia inutile, ma dannoso, cercare di contenere l’azione militare delle truppe di invasione in Ucraina. Alessandro Orsini, tanto per fare un esempio, lo aveva detto fin dal 24 febbraio scorso. Teorizzando che, per evitare spargimenti di sangue, era necessario consegnare a Putin le chiavi del Donbass, fin dall’inizio.
Che poi in questo schema vi siano cose che non tornano, è facile da vedere. Nella guerra del Vietnam, ad esempio, questo schema non era stato rispettato. O almeno i vietcong, come del resto oggi gli ucraini, non erano d’accordo. Ritenevano che, a casa loro, non dovessero comandare né i francesi, né, tanto meno, gli americani. E per questo avevano preso le armi, costringendo sovietici e comunisti cinesi, che pure guerreggiavano tra loro nel territorio dell’Ussuri, a mettere da parte le rispettive divergenze e fare ciò che l’Occidente sta facendo ora a favore dell’Ucraina. Che la ragione fosse dalla loro parte é stata la storia a dimostrarlo.
Quindi attenti a non prendere per oro colato le tesi di Mosca. Anche perché nello schema proposto esistono contraddizioni profonde. L’Occidente quando é intervenuto – malamente almeno a nostro avviso – ha, in qualche modo, cercato di salvare la faccia, pur senza riuscirci. Ha tentato, in altre parole, di consegnare il Paese, oggetto dell’intervento militare, a rappresentanti di quelle popolazioni, seppure più in sintonia con il modo di vedere occidentale. In Iraq i sunniti di Saddam Hussein furono sostituiti dagli sciiti di al-Jaʿfarī, mentre i curdi ottennero la presidenza con Barham Ṣāliḥ. Più complessa la vicenda libica, nella contrapposizione tra Tripoli e Tobruk. Quelle drammatiche ed alterne vicende che hanno portato solo nel 2021 alla nomina di un Primo ministro unitario nella persona di Mohammed Dbeibeh.
La Russia, invece, si comporta diversamente. Sa di non potersi fidare di suoi uomini. L’ultimo esperimento, legato a Victor Juščenko, si era dimostrato un fallimento. Cacciato in malo modo a seguito delle manifestazioni in Piazza Maidan, a causa della sua forte acquiescenza nei confronti della strategia del Cremlino. Del resto l’intervento del proprio esercito, per dominare Paesi satelliti troppi attratti da un malsano desiderio di libertà, é un classico della quella storia. Si pensi solo all’Ungheria del 1953 o alla Cecoslovacchia del 1968. Nel Donbass si stanno comportando allo stesso modo. Nelle aree conquistate (ma anche prima) stanno già dando luogo ad un’assimilazione forzata.
Già nelle province di Donetsk e Lugansk, fin dall’aprile 2019, erano stati consegnati passaporti russi a 720 mila persone. Le quali, tra l’altro, avevano potuto votare per la Duma. Unica accortezza il loro trasporto nella regione russa di Rostov, appena oltre il confine. Per la Crimea i problemi erano stati minori, vista la presenza in loco della principale base navale russa del Mediterraneo. Un plebiscito aveva sancito il ritorno di quei territori tra le braccia di Santa Madre Russia. Precedenti sperimentati. Nelle città martiri di Mariupol, Severodonestsk o Lyman, si ripete lo stesso schema. Passaporti russi in segno di fedeltà al nuovo regime e concambio della moneta: 1 rublo contro 2 grivnia ucraine, nella speranza di completare l’annessione nel tempo più breve possibile.
C’é tuttavia qualcosa che stride maledettamente in questa strategia. Che interesse può avere Putin a far sventolare la bandiera imperiale su un territorio che le sue truppe hanno letteralmente polverizzato. Quella “macina”, per riprendere l’immagine di Domenico Quirico, usata per ridurre “il grano in farina e in polvere”. Quando “invece dei chicchi ci sono uomini, case, campi, città”. Immagini agghiaccianti che testimoniano, al tempo stesso, la ferocia, ma anche la stupidità delle truppe di invasione. Se, infatti, il fine é la successiva annessione chi sarà in grado di porre riparo alle devastazioni della guerra? Chi avrà la capacità di rimettere in piedi l’acciaieria di Azvostal? Gli stessi russi, una volta giunti al cessate il fuoco? Ne dubitiamo. Ci vorranno dai 500 ai 1.000 miliardi di dollari, secondo i calcoli più recenti per far fronte alla ricostruzione di quelle terre. Risorse che la Russia (un Pil inferiore a 1.500 miliardi di dollari) non hanno. E capacità manageriali nemmeno a parlarne.
Ed ecco allora il quesito ancora più drammatico. Ma dove vuole arrivare Putin? Dove intende fermarsi per cominciare a trattare? Nel suo famoso discorso del febbraio 2013 (Concezione della politica estera della Federazione Russa) le sue mire era state rese esplicite. Voleva costruire un blocco tra l’Occidente e l’Oriente dando luogo all’Unione economica euroasiatica. In cui l’Ucraina rappresentava una pedina politica essenziale. Gioco che, almeno finora, non gli é riuscito con l’invasione militare. Sarà costretto a fermarsi per poi tentare di far coincidere, come avvenne a Yalta, il posizionamento militare con i nuovi confini politici. Insomma Germania est e Germania ovest.
L’Occidente deve quindi essere preparato. Avere chiaro nella testa un limite oltre il quale Putin non possa spingersi. E su questa linea del Piave, organizzare la necessaria deterrenza. Se così non fosse, il tentativo di congiungere il Donbass alla Transnistria sarebbe a portata di mano e con esso l’esclusione dell’Ucraina da ogni sbocco sul Mar Nero. Un drammatico ritorno al passato, quando l’Ucraina, appunto, secondo la visione russa, occupava solo la regione di Kirovohrad e Poltava, prima che gli zar (1654) concedessero a questo piccolo territorio le grandi provincie del nord, confinanti con Russia e Bielorussia; Lenin (1922) tutto il Donbass e l’accesso al mare; Stalin (1945) la parte occidentale confinante con l’Europa e Krusciov (1954) la Crimea. É come se Austria, Spagna o Francia rivendicassero i loro antichi possedimenti nel Bel Paese.