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Scholz

La perfida rivincita di Meloni su Scholz

La lettura in chiave italiana del voto in Germania e il parallelo fra Meloni e Scholz. I Graffi di Damato

A meno di tre mesi dalle preoccupazioni espresse dal cancelliere tedesco Olaf Scholz dopo le elezioni europee per il perdurante primato elettorale della destra in Italia, e dall’azione da lui svolta col presidente francese Emmanuel Macron per tenerla nell’angolo nella gestione dell’Unione, Giorgia Meloni si è presa la sua rivincita. Il cancelliere di Berlino ora “rischia il posto”, come ha titolato Repubblica, per “l’onda nazi” che ne ha travolta il partito nelle elezioni regionali della Turingia e della Sassonia.

Scholz si sta smarrendo nella “foresta nera della Germania”, come l’ha chiamata La Stampa. Una foresta al cui confronto quella che a sinistra si vede e si indica in Italia per la presenza della Meloni a Palazzo Chigi, e per i voti che continua a raccogliere, è imbiancata.

Rispetto alla destra tedesca che avanza e rende “nero il cuore” della Germania Giuliano Ferrara sul Foglio ha scritto che “noi italiani dovremmo accendere il classico cero alla Madonna” per averci mandato con la Meloni a Palazzo Chigi, pur non menzionata esplicitamente, non una ma “la Donna della Provvidenza”. E pazienza, anche se Giuliano non si è spinto a scriverlo, se ogni tanto la premier italiana è costretta a subire nella guida e nella gestione del suo centrodestra, o destra-centro, gli scavalcamenti dell alleato e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, spalleggiato peraltro dal generale in aspettativa ed eurodeputato Roberto Vannacci. Che potrebbe a sua volta superare lo stesso Salvini a tal punto da mettersi in proprio con un partito concorrente.

Intervistato ieri dal Fatto Quotidiano ai margini della festa dell’Unità di Pesaro, la stessa che aveva accolto nei giorni scorsi con una certa cordialità il suo rottamatore Matteo Renzi, il sempre pungente, sarcastico e quant’altro Massimo D’Alema ha voluto marcare la differenza dei nostri tempi da quelli in cui le carte in qualche modo le distribuiva lui da Palazzo Chigi. E non solo a sinistra, essendo arrivato alla guida del governo col soccorso della buonanima di Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica ma provvisto di un manipolo di parlamentari moderati, a dir poco, provenienti dal centrodestra, che lui si divertiva a chiamare “straccioni”. Come quelli storici di Valmy che sconfissero nel 1792 le truppe austro-prussiane salvando la Rivoluzione francese.

“Ai mei tempi – ha detto D’Alema, succeduto peraltro a Romano Prodi nel 1998 senza passare per le elezioni anticipate che lo stesso Prodi reclamava in difesa della propria designazione nelle urne di due anni prima – per vincere c’era bisogno di conquistare venti milioni di voti. Oggi Meloni è a Palazzo Chigi con dodici milioni di voti”. È vero, per carità. I numeri sono questi. Ma ciò è avvenuto grazie all’astensionismo, cioè all’allontanamento dalla politica e dalle urne, prodotto da quelli che hanno preceduto la Meloni alla guida del governo, compreso D’Alema. Che consideravano le formazioni dei governi operazioni di palazzo.

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