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Giorgetti

Si ritorna al proporzionale?

I Graffi di Damato.

 

I 17 governi, 11 presidenti del Consiglio e 7 legislature susseguitesi nei 28 anni trascorsi dal 1994 -quando si votò per la prima volta in Italia col sistema non più proporzionale ma misto, prevalentemente maggioritario, poi addirittura con l’indicazione del candidato alla guida del governo nella scheda elettorale- sono o dovrebbero essere più che sufficienti per condividere il bilancio “fallimentare” appena lamentato da Paolo Delgado sul Dubbio a proposito della svolta voluta dai promotori del referendum elettorale del 1993. Che era stato preceduto nel 1991 da quello contro i voti plurimi di preferenza, ridotti a uno solo, sperimentato l’anno dopo nella campagna elettorale rivelatasi la più costosa della storia repubblicana per i candidati che vi avevano partecipato, e perciò soppresso anch’esso nelle elezioni successive.

Le meraviglie promesseci con i loro referendum dal compianto Marco Pannella e dal mio carissimo amico Mariotto Segni, che aveva letteralmente stregato Indro Montanelli con le sue visite nella redazione del Giornale, si sarebbero dovute tradurre in questi 28 anni -ripeto- trascorsi dal 1994 in sei legislature e altrettanti governi e presidenti del Consiglio, tutti nominati solo formalmente dal presidente della Repubblica, essendo ancora in vigore l’articolo 92 della Costituzione approvata nel 1947, ma in realtà scelti, indicati, designati, come preferite, dagli elettori, poveri illusi.

Degli 11 presidenti del Consiglio succedutisi a Palazzo Chigi nella stagione maggioritaria solo due hanno avuto la fortuna di passare per la loro indicazione sulla scheda elettorale: Silvio Berlusconi e Romano Prodi, il primo riuscendo a restare a Palazzo Chigi per una decina d’anni peraltro non continuativi, e il secondo per meno di quattro, neppure essi continuativi. Tutti gli altri presidenti del Consiglio sono stati selezionati, diciamo così, di seconda e terza mano dalle segreterie dei partiti o personalmente dal capo dello Stato, come Lamberto Dini da Oscar Luigi Scalfaro nel 1995, Mario Monti da Giorgio Napolitano nel 2011 e Maro Draghi l’anno scorso da Sergio Mattarella. E – altra particolarità delle sorprese del quasi trentennio più o meno maggioritario- uno dei presidenti del Consiglio usciti dai giochi interni di partito non era neppure stato eletto al Parlamento: Giuseppe Conte, Giuseppi per l’amico Donald Trump. Egli fu nominato in modi dichiaratamente scettico da Mattarella, che avrebbe preferito gli fosse stato proposto dai grillini e dai leghisti qualcuno eletto precedentemente anche solo ad un Consiglio Comunale. Conte invece non solo gli fu proposto senza precedenti neppure amministrativi e fu ugualmente nominato, ma realizzò continuativamente, fra il 2018 e il 2019 due maggioranze politiche di segno opposto: una con la Lega e senza il Pd, l’altra col Pd e senza, anzi contro La Lega.

Fu detto e scritto, a giustificazione di tanta disinvoltura, che anche a Giulio Andreotti era capitato nella cosiddetta prima Repubblica di realizzare maggioranze opposte di governo: senza, anzi contro, e col Pci. Ma fra l’una e l’altra erano passati almeno quattro anni: nel 1992 senza o contro il Pci, alla testa di un governo centrista con i liberali, e nel 1976, alla guida di un governo interamente democristiano, con l’appoggio esterni dei comunisti e la formula della ”solidarietà nazionale” inventata da Aldo Moro E non del “compromesso storico” perseguito da Enrico Berlinguer, come invece qualcuno ogni tanto scrive e dice a proposito di quel passaggio politico con un’assai presunta autorità di storico. Povera storia, e povero Moro, che tanto si industriò, sino alla vigilia della morte per mano dei brigatisi rossi, a tenere i comunisti fuori dal governo, anche dopo che Berlinguer si era spinto a dirsi più “garantito” dall’ alleanza atlantica che dai vecchi rapporti di amicizia e solidarietà con la Mosca dell’Unione Sovietica.

Per tornare alle mancate meraviglie del sistema maggioritario miseramente “fallito”, secondo le giuste conclusioni tratte da Paolo Delgado, peccato che forse non avremo materialmente il tempo di tornare al vecchio e certamente preferibile sistema proporzionale. Col quale ho personalmente votato per una quarantina d’anni senza aver mai venduto un mio voto di preferenza, e senza essermi mai sorpreso delle alleanze politiche poi strette dal partito via via prescelto, essendomi sempre stato chiaro il suo orientamento per il dopo-elezioni.

La situazione politica, già difficile per la campagna elettorale praticamente in corso a vari livelli, anche nazionale, si sta aggravando per gli effetti della guerra in Ucraina e della linea adottata da Draghi, considerata troppo atlantista dalla coppia un po’ riformatasi fra Salvini e Conte. Se il rinnovo delle Camere fosse anticipato per il sopraggiungere di una crisi, dalla quale sono in tanti ad essere tentati pur smentendo a parole, non ci sarebbe il tempo né politico né materiale, ripeto, di modificare la legge elettorale in vigore. Di cui tutti pure parlano più o meno male.

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