A Davos, dove – ad eccezione di Donald Trump – sono riuniti i grandi della terra per discutere delle sfide che attendono il pianeta, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha appena certificato l’oramai scontato rallentamento dell’economia globale. È significativo che solo un anno fa, sempre a Davos, il Fmi avesse rivisto le stime di crescita al rialzo: una valutazione che faceva eccessivo affidamento sugli effetti benefici a cascata del taglio delle tasse operato negli Stati Uniti.
Che le nubi si stessero addensando all’orizzonte lo si sapeva già dall’ottobre dello scorso anno. A preoccupare erano soprattutto le tensioni commerciali, segnatamente tra Cina e Stati Uniti, la Brexit, e l’andamento più incerto delle economie in via di sviluppo ed emergenti. A ottobre, in occasione dei suoi Annual Meetings, il Fondo aveva già ridotto la stima di crescita – dal 3,9% al 3,7% quella mondiale sul biennio 2018-19 – sottolineando come fossero in aumento il grado di incertezza e i fattori di rischio per lo scenario globale.
Nei mesi scorsi i segnali negativi si sono aggravati e persino moltiplicati. Il rallentamento in Cina e negli altri mercati emergenti, il crollo del mercato dell’auto in tutta Europa, il tonfo delle borse: tutte cose che ci ricordano come in un mondo di mercati interdipendenti gli shock si trasmettano rapidamente all’intero sistema. Se a questo aggiungiamo la situazione che si è creata in Francia con le proteste dei ‘gilet gialli’ nonché lo stallo determinatosi nel Regno Unito circa l’accordo con l’Ue sulla Brexit, il quadro è presto fatto.
E così il Fondo ha operato un’ulteriore limatura delle sue proiezioni, portando la crescita mondiale per quest’anno al 3,5%, dato che riflette dinamiche meno brillanti in pressoché tutte le aree del mondo. Per l’Italia il nuovo dato (0,6%) è in linea con quello indicato dalla Banca d’Italia nel suo ultimo Bollettino Economico, che tiene peraltro conto delle misure espansive previste nella manovra del Governo.
Non ci piove, dunque, che quello appena cominciato sarà un anno difficile per tutti. Ma la vera questione è capire come evolveranno le cose dopo il 2019, il che dipenderà molto anche dalle scelte che verranno adottate nei mesi a venire.
Per il 2020 il Fmi indica una risalita della dinamica economica, soprattutto sulla spinta dei mercati emergenti, ma si tratta di indicazioni che tendono a disegnare uno scenario ‘inerziale’ (anche per questo si chiamano ‘proiezioni’ e non ‘previsioni’). Secondo molti osservatori, invece, le probabilità di una nuova recessione globale nel 2020 sono elevate.
Così la pensano, ad esempio, fonti autorevoli come Nouriel Roubin e l’Economist, secondo i quali saremo anche meno preparati ad affrontarla. Infatti i tassi di interesse sono ai minimi e lasciano margini ristretti a politiche monetarie espansive, a meno di non voler continuare con il Qe.
Questa prospettiva pessimistica sembra piuttosto diffusa, non solo tra gli economisti. Forte è infatti la preoccupazione che si stia assistendo ad una graduale ‘frammentazione’ del sistema globale a causa dei dilaganti nazionalismi, delle spinte protezionistiche, e della crescente avversione al processo di globalizzazione; tutti fattori che stanno gradualmente indebolendo le istituzioni multilaterali. Ce ne offre una lucida descrizione Fabrizio Saccomanni nel suo ultimo libro, edito dal Il Mulino, ‘Crepe nel sistema. La frantumazione dell’economia globale’.
In questo scenario una nuova recessione a carattere sistemico è senz’altro plausibile, perché un rallentamento pronunciato degli scambi porterebbe ad una caduta generalizzata dei tassi di crescita, che a sua volta potrebbe alimentare una spirale perversa fatta di sfiducia e nuovi protezionismi.
A mio avviso, però, non è solo un problema di ‘crepe’ nella cooperazione internazionale. È l’esaurimento di un approccio che ha affidato la ripresa essenzialmente a politiche monetarie troppo e troppo a lungo espansive. Queste politiche non creano crescita sostenibile e anzi producono distorsioni nelle valutazioni degli asset finanziari e negli affidamenti bancari, nonché disincentivi a condurre politiche fiscali rigorose e volte ad accrescere gli investimenti.
La ricetta per evitare il peggio non sta nel prolungare oltre tempo il Qe, sebbene le banche centrali dovranno usare estrema cautela nel rimodulare i tassi in una fase così delicata. Risiede piuttosto nell’apertura al commercio internazionale e in politiche che favoriscano, in special modo in Europa e negli Stati Uniti, gli investimenti e l’aumento della produttività.
Affidiamoci dunque allo ‘spirito di Davos’ e speriamo che il quadro a tinte fosche tratteggiato dal Fmi serva a illuminare i leader mondiali circa i rischi concreti di una nuova recessione globale.