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Riforme

Riforme istituzionali: obiettivi, percorsi, dossier e incognite

Chi c'era e che cosa si è detto all'incontro che ieri al Cnel ha visto riuniti alcuni dei maggiori costituzionalisti italiani. E i nodi da affrontare sulle riforme. Il punto di Battista Falconi

 

Il percorso delle riforme si va delineando con maggiore chiarezza, dopo l’incontro che ieri al Cnel ha visto riuniti alcuni dei maggiori costituzionalisti italiani, prevalentemente di area di centro-destra ma con significative presenze anche di diversa ispirazione. La riunione, come ha chiarito il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, è la seconda tappa – dopo quella svoltasi il 9 maggio alla Camera tra il Presidente del Consiglio, i ministri competenti e le forze politiche di opposizione – di un processo che proseguirà con i confronti tra governo, Regioni, Comuni e parti sociali: presumibilmente ancora ospitati nell’Istituto presieduto da Renato Brunetta.

I DUE OBIETTIVI DEL GOVERNO: STABILITÀ E VOLONTÀ POPOLARE

Alla fine, nessuno potrà accusare il governo di non avere agito in una logica di dialogo, senza proporre un modello sul quale convergere ma cercando, al contrario, di raccogliere consensi su un’opzione che, però, assicuri i due obiettivi che la maggioranza e il suo leader hanno stabilito con chiarezza. Il primo è la stabilità, esigenza condivisa più o meno da tutte le persone di buon senso, il secondo è il rispetto della volontà popolare. Un elemento meno scontato, questo, poiché implica delle forme costituzionali che assegnino agli elettori la certezza di scegliere non soltanto il capo del governo ma anche una maggioranza che non cambi nell’arco della legislatura. Tutte queste esigenze, secondo alcuni osservatori, sono un lusso astratto che la politica si concederebbe, distraendosi da altre necessità più concrete e impellenti. Ma si tratta di un’obiezione miope, poiché il funzionamento della macchina dello Stato è essenziale anche per avere un’economia e una società moderne, in grado di reggere la complessità e la concorrenza dei sistemi globali contemporanei.

LE CONSULTAZIONI CON LE OPPOSIZIONI

La situazione è abbastanza chiara. Giorgia Meloni ha spiazzato le opposizioni convocandole per quelle che, impropriamente ma significativamente, sono state chiamate “consultazioni”, come se lei fosse il capo dello Stato. Dopo una primissima reazione un po’ scomposta, i partiti di minoranza hanno capito che non sarebbe loro convenuto un atteggiamento di scontro frontale, come quello che i sindacati e soprattutto la Cgil hanno assunto nei confronti del decreto lavoro del primo maggio. Il rischio è di apparire come degli avversari pregiudiziali, ostili e ideologizzati, che non fanno simpatia e non raccolgono consenso. Detto ciò, il lapsus è giustificato dal fatto che, come è stato paradossalmente rimproverato al presidente del Consiglio, l’attuale governo detiene una maggioranza che non era nelle disponibilità degli esecutivi precedenti e quindi – si dice, si mormora, si sospetta – sulle riforme istituzionali potrebbe procedere in autonomia. Meloni ha ammesso che, dal punto di vista dell’interesse specifico e personale, questa riforma andrà a vantaggio di un esecutivo futuro e un giorno ci sarà qualcuno, suo avversario e successore, che la ringrazierà per avergli concesso di guidare il paese con una maggioranza solida.

La questione prevalente è proprio questa: la mitica “stabilità”. La successione dei 68 governi in 75 anni è un grave vulnus del sistema Italia, lo dicono da Sabino Cassese a Mantovano, il quale al Cnel evidenziava come nella prima Repubblica cambiassero con maggior frequenza i primi ministri e fossero relativamente stabili le aree di maggioranza, per esempio quella di centrosinistra, mentre nella seconda i leader resistono di più ma con appoggi soggetti a mutazioni. Nessuno però porta alle estreme conseguenze certe considerazioni. “Bisogna vedere prima il sintomo e poi ipotizzare la terapia”, dice Cassese. “L’instabilità è un fattore di debolezza dell’Italia in termini di immagine e si traduce in una carenza di competitività economica, tanto che lo sviluppo italiano è stato del 4% contro il 20% di Francia e Germania. Quando si fa un accordo il nostro interlocutore non è sicuro di trovare lo stesso partner dopo qualche mese”, sostengono Meloni e ha ripetuto in modo quasi letterale il suo sottosegretario.

Che la provvisorietà continuativa dei nostri governi sia un problema è ovvio, che incida in modo così diretto e rilevante sul nostro sviluppo è forse una conclusione eccessiva e indimostrata, giacché queste tendenze hanno sempre un’articolazione molto complessa e multifattoriale. Ma proseguiamo nel merito.

L’ARDUO DOSSIER AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Delle riforme bisogna evidenziare diversi aspetti. Il primo è che il pacchetto di meccanismi nel quale bisogna intervenire è ampio e investe, oltre alla leadership, anche le autonomie, sulle quali le possibilità di convergenza sono assai ridotte. Durante gli incontri del 9 maggio la segretaria democratica Elly Schlein ha addirittura chiesto un embargo al riguardo, mentre la Lega con il ministro Roberto Calderoli vuol procedere come un caterpillar. Portare avanti i due discorsi in parallelo è però difficile. Lo ricordano alcune coincidenze, non si sa se volute o fortuite. I confronti alla Camera si sono svolti in contemporanea con la riunione del Comitato per i livelli essenziali di prestazione (a capo del quale è stato messo proprio Cassese, tanto per dare l’idea che non si è cercato un esperto di area), con il rischio di pestarsi un po’ i piedi. Il pomeriggio al Cnel, poi, si è svolto dopo la gaffe della “manina”, cioè la pubblicazione (involontaria?) da parte di un ufficio del Senato di un documento critico sul progetto di autonomia portato avanti da Calderoli, che in una nota durissima ha chiarito come l’ufficio studi di Palazzo Madama non avesse mosso alcun rilievo alla bozza.

Risultato? Confusione. Appena giunta a Villa Lubin, l’altra ministra di competenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati, è stata così sollecitata a rispondere sulla vicenda, mentre l’incontro di ieri si concentrava su premierato e dintorni. A proposito del quale, come si accennava, il principale problema concerne i due obiettivi che, per Meloni e per i suoi, è assolutamente indispensabile vadano di pari passo: la garanzia della stabilità e il rispetto della volontà popolare. Su questo il Presidente del Consiglio insiste molto, e a ragione. Lo ha rimproverato soprattutto a Giuseppe Conte: non si può chiedere un esecutivo che duri per certo l’intera legislatura se non si è certi che sia guidato da una persona rispondente al gradimento degli elettori. Altrimenti ci troveremo una sorta di commissariamento, per non dire di dittatura, un “deus ex machina” uscito come un coniglio dal cilindro si troverebbe insediato a Palazzo Chigi. Alla Camera si evidenziava con sarcasmo come non stupisca questa posizione del leader del Movimento 5 Stelle, che ha potuto guidare il nostro paese senza la fatica di procurarsi i voti, per cui questa soluzione sarebbe quella a lui più confacente. Ma Meloni, leader di un partito che si è guadagnato con fatica e pazienza una progressione geometrica di consenso nelle urne, comprensibilmente pretende che il metodo che si adotterà garantisca entrambi gli aspetti.

PREMIERATO, PRESIDENZIALISMO O SEMIPRESIDENZIALISMO?

Chiarito questo, si apre il dibattito fra le ipotesi prevalenti di premierato, presidenzialismo e semipresidenzialismo, con disponibilità abbastanza ampia a muoversi in questo terreno, magari cercando una soluzione intermedia e originale, per esempio far scegliere il nome del capo del Governo nella scheda, affidandogli anche il potere di scioglimento delle Camere, ferme restando comunque le prerogative del Capo dello Stato. A proposito del Quirinale, anche l’esigenza posta da diverse formazioni parlamentari di mantenere un capo dello Stato eletto dalle Camere e non dal popolo, che faccia da contrappeso al premier direttamente eletto, trova tutti abbastanza convinti. Il filtro parlamentare avrebbe una sua utilità in termini di garanzia istituzionale.

Infine, va considerato l’aspetto legislativo, sul quale non si è ancora udito un ragionamento completo. Se si vuole davvero garantire la governabilità per cinque anni occorre intanto istituire un vincolo di mandato che non consenta rimescolamenti delle maggioranze. Anche su questo Meloni è stata precisa, spiegando che è un problema di programma e non di mera coerenza morale: si vota una coalizione o un partito per attuare alcune cose, ma se le alleanze cambiano durante il mandato, quelle previste si mescolano tra loro e ne escono degli ibridi che non soddisfano nessuno.

Oltre che di questo, bisogna tenere conto che si procede sempre più per normative governative, in quanto i problemi da risolvere sono non soltanto complicati ma anche urgenti e, quindi, si tende a un iter immediatamente applicativo. Anche quelle che assurdamente chiamiamo emergenze, come le migrazioni o il dissesto territoriale, sono problemi strutturali, i quali però si riflettono in crisi particolari episodiche e momentanee sulle quali bisogna procedere in tempi rapidissimi. Così, si lamenta, il Parlamento è esautorato. Vero, ma intanto il Parlamento grandissima voglia di lavorare non ne ha: deputati e senatori, anche con la scusa della riduzione di numero, adducono sempre impegni esterni alle aule, lo abbiamo visto in modo clamoroso quando il governo è andato sotto per ben 45 assenze. E poi questo discorso, portato alle estreme conseguenze, porta a una scandalosa conseguenza anti-parlamentarista, cioè che la ripartizione tradizionale dei poteri legislativo ed esecutivo è ormai obsoleta e sarebbe preferibile un sistema elettorale con il quale si compattino la parte governativa e parlamentare, riducendo la seconda a un mero supporto tecnico e operativo nella stesura normativa. Il che non si otterrà, probabilmente, ma potrebbe portare a superare almeno l’assurdo bicameralismo che, infatti, è oggetto di discussione.

Il fair play dei primi due incontri è stato sicuramente positivo e apprezzabile ma nella sostanza, come Meloni stessa ha rilevato, ciascuno si presenta con le proprie proposte e nessuna delle formazioni di opposizione è d’accordo con un’altra. L’auspicato tavolo tra i partiti della minoranza, gli esperti e le forze sociali avrebbe una sua utilità. Ma la domanda è se sia interesse di chi oggi non governa aiutare la maggioranza a portare a casa il risultato storico di cambiare le regole del gioco. Meloni, con il fiuto politico che la contraddistingue, ha già chiarito, prima e dopo gli incontri della Camera, che non è disponibile a manovre dilatorie. Sì al dialogo, in un tempo lungo abbastanza da sciogliere i nodi ma contenuto nella legislatura. Per quanto riguarda lo spazio dove confrontarsi, invece, le sedi parlamentari in passato non hanno portato fortuna e il Cnel è un’ipotesi valida. A Brunetta non sfugge certo l’occasione, che questa ospitalità gli offre, di sottrarlo alla nomea di ente inutile, da abolire con un’altra riforma costituzionale.

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