Il meglio nemico del bene è un vecchio proverbio adattabile anche alla pretesa – non saprei ormai come definirla diversamente – della maggior parte delle opposizioni, tanto da rasentare il singolare, di trasferire nelle piazze, col richiamo ai “corpi” gridato spesso dalla segretaria del Pd Elly Schlein, il contrasto alle riforme per l’inagibilità parlamentare che deriverebbe dai numeri, dai toni, persino dallo “spirito” del governo. Che col fatto stesso, per esempio, di proporre direttamente una riforma costituzionale della portata del premierato, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, avrebbe compromesso un reale, pieno, libero confronto. Una convinzione, questa, che ha portato in passato a tentare interventi sulla Costituzione col percorso delle commissioni bicamerali.
A chi è ancora persuaso di questo percorso preferibile ad ogni altro suggerisco la lettura dell’intervista rilasciata al Corriere della Sera da Gianni Cuperlo per raccontare il fallimento – ahimè – dell’ultima commissione bicamerale. Che fu presieduta nel 1997 dall’amico personale e di partito dello stesso Cuperlo di nome Massimo e cognome D’Alema: mica un esponente minore della sinistra, peraltro preferito ad altri in quel ruolo dal leader allora dell’opposizione di centrodestra Silvio Berlusconi. A Palazzo Chigi sedeva, per la sua prima esperienza in quel posto, Romano Prodi. Cui poi lo stesso D’Alema sarebbe succeduto, pur reduce – o proprio perché reduce, come fosse preferirebbe dire chi conosce bene il temperamento dell’interessato – dall’epilogo negativo di quella commissione.
Anche Cuperlo, in verità, attribuisce la formale responsabilità di quella conclusione infausta a Berlusconi. Che, diversamente dall’ancora alleato Gianfranco Fini, preferì evitare, ciò impedire il passaggio dalla commissione all’aula di Montecitorio per portare avanti il progetto che era andato delineandosi. Ma neppure Prodi francamente mi sembrava entusiasta della crescita del ruolo e delle prospettive di D’Alema presidente della commissione bicamerale e potenziale padre di una riforma che avrebbe potuto rendere effettiva, e non solo nominalistica, la cosiddetta seconda Repubblica. Che era stata avvertita, vista, indicata nel passaggio dal vecchio sistema elettorale proporzionale ad uno misto di maggioritario prevalente sul proporzionale.
Come era già accaduto alla precedente commissione bicamerale presieduta da Ciriaco De Mita, e poi da Nilde Iotti, colpita dagli anatemi minacciosi dei magistrati ordinari che avevano rovesciato gli equilibri nei rapporti con la politica durante la stagione delle “mani pulite”, quella di D’Alema aveva dovuto subire le minacce dei magistrati amministrativi. Cuperlo ha raccontato di una lettera anonima ricevuta dal presidente della Commissione su carta e busta intestata della Corte dei Conti. Che può far male anche più di un tribunale penale e civile alle tasche personali di chi governa contestandone le scelte. Per essere stato presidente del Consiglio, ad esempio, Arnaldo Forlani negli anni Ottanta rischiò di rimetterci la casa con la decisione della pubblicazione delle liste della loggia massonica segreta P2, dove c’era anche il suo capo di Gabinetto, dopo che i magistrati inquirenti avevano cominciato a lasciarle diffondere a rate dai giornali intossicando le cronache politiche. Quanti si ritennero danneggiati ingiustamente reclamarono danni per centinaia di milioni di lire.
Per tornare ai tempi di D’Alema alla Bicamerale del 1997, non era aria di riforme davvero condivise, come le definiscono e auspicano in tanti. Non è aria neppure oggi. E non lo sarà forse mai, essendo francamente, onestamente irripetibili le circostanze eccezionali nelle quali i costituenti avevano potuto, oltre che voluto lavorare fra il 1946 e il 1947, dopo una guerra che era finita per essere anche civile. E non credo che potrebbero ricreare miracolosamente quel clima le piazze contrapposte in questi giorni al governo Meloni, al Parlamento e alle leggi che esso produce con una maggioranza di centrodestra. Leggi delle quali peraltro si continua a ignorare, o sottovalutare, il fatto che fra i vari passaggi da superare contengano quello iniziale – di autorizzazione – e quello finale – di firma per la promulgazione – del presidente della Repubblica. Che peraltro non mi sembra proprio sospettabile di scarsa o mancata vigilanza. Sergio Mattarella ha appena fatto sapere che vuole prendersi tutto il tempo consentitogli dalla Costituzione – un mese – per valutare la legge sulle autonomie approvata in via definitiva dalla Camera nella scorsa settimana.