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Perché è folle il dibattito sulla riforma dell’Eurozona

L’analisi dell’economista Paolo Savona L’esame dei contenuti del piano di riforma dell’eurozona induce a pensare che i tempi del Gattopardo non siano finiti: si deve cambiare affinché nulla cambi; infatti dietro l’annuncio di voler migliorare le politiche sociali ciò che viene prospettato cela un giro di vite in linea con quanto decise la vecchia Europa…

L’esame dei contenuti del piano di riforma dell’eurozona induce a pensare che i tempi del Gattopardo non siano finiti: si deve cambiare affinché nulla cambi; infatti dietro l’annuncio di voler migliorare le politiche sociali ciò che viene prospettato cela un giro di vite in linea con quanto decise la vecchia Europa di Maastricht che ha creato crescenti insoddisfazioni e profondi mutamenti politici all’interno di tutti gli Stati membri: la stabilità fa ancora premio sullo sviluppo, le élite benestanti (imprenditori e rentier) si rafforzano rispetto ai gruppi sociali in difficoltà (disoccupati e ceto medio).

È pur vero che la storia insegna che ciò accade in periodi di mutamenti profondi come quelli in cui viviamo perché i più forti e preparati sono capaci di reagire meglio rispetto agli altri; se però non si vuole portare l’Ue e l’euro alle soglie della spaccatura andrebbe prodotto uno sforzo intelligente per spiegare il perché si chiedono sacrifici ai cittadini; o, meglio, quali siano le prospettive nuove che aprono i sacrifici richiesti.

Un impegno non lieve che richiede tempo e impone di passare da una fase di transizione di attivazione di alcuni strumenti considerati non ortodossi, come quello che fu deciso con la politica monetaria accomodante da parte della Bce di fronte alla grave crisi finanziaria. Sia pure attuati, come suol dirsi, con patti chiari per un’amicizia lunga. Se non lo si decide, chi si vanta d’essere europeista va considerato invece il vero nemico di un’Europa unita da realizzare nel contesto di una società aperta in cui chi ha difficoltà si sente comunque parte del sistema. Altrimenti è la fine di quell’embrione di democrazia che bene o male avevamo costruito.

Chiarito che, sulla base di detto piano, riforma significa cambiare in modo tale che l’impostazione data agli assetti istituzionali del passato non cambino, veniamo al caso specifico dell’Italia. I risultati elettorali indicano che una larga maggioranza di votanti è convinta che il Paese andrebbe governato meglio, ma questo desiderio assume la forma di una maggiore redistribuzione del reddito e, per alcuni, anche della ricchezza legittimamente e con sacrificio accumulata.

Infatti, non c’è Partito vincente o perdente alle elezioni che non abbia promesso o continui a promettere qualcosa in più, pur avendo un bilancio pubblico ancora sotto stress e un debito statale largamente fuori dai parametri degli accordi europei sottoscritti. Il tema dell’Europa è stato di fatto accantonato nel dibattito elettorale per evitare che la speculazione internazionali ci aggredisse, ma il problema non solo rimane, ma entra in conflitto con quelle stesse promesse e con il convincimento che il rispetto della legge e degli accordi sia opzionale, invece che il fondamento della democrazia. L’incontro tra queste due istanze ha contenuti esplosivi.

Da un lato la lotta alla corruzione condotta a colpi di legge il cui rispetto va affidato a corpi burocratici non raggiungerà mai il suo scopo e appesantirà il rispetto dei parametri fiscali di Maastricht; dall’altro, dopo mezzo secolo di politiche redistributive che hanno raddoppiato la pressione tributaria (portandola a quasi le metà del Pil) e il debito dello Stato (innalzandolo al doppio degli accordi europei), si pensa ancora che occorra redistribuire pur avendo registrato un peggioramento delle famiglie in difficoltà e nel territorio.

Se il metodo non ha funzionato è perché manca un mercato veramente competitivo che impedisca ai settori non esposti alla concorrenza di trasferire sui prezzi i costi, inclusi quelli legati a politiche redistributive, neutralizzandole. L’accordo che ha indotto ad aderire all’Unione europea aveva l’obiettivo di incrementare la competizione, ma esso è stato raggiunto per gli scambi di merci, ma non per quelli di lavoro, né di capitali, meno ancora per la tassazione, che ha operato in senso perverso rispetto alla libera competizione.

Invece il piano che verrà discusso in Consiglio si limita a censurare i divari di produttività italiani, ignorando che essi – per quanto se ne sappia perché poco studiati – per la metà sono frutto di divari nella dotazione di infrastrutture sulla quale le leggi che vincolano il bilancio pubblico italiano e quello europeo non consentono di incidere. Richiede inoltre di rientrare nei rapporti tra debito pubblico e Pil con politiche inevitabilmente deflazionistiche che peggiorerebbero la situazione, invece di indicare una soluzione tecnica che consenta di realizzare l’obiettivo evitando questo rischio; peggio ancora se si offre ai paesi assistenza di tipo greco in contropartita di una perdita della sovranità statale residua.

È stato dimostrato che la Bce ha strumenti per intervenire sul debito e altri sono conosciuti, purché la riforma dell’euroarea lo preveda (per inciso, andrebbe soddisfatta anche la necessità di dotare la Bce di poteri di intervento sul cambio affinché l’euro non resti in balia delle altre valute). Infine occorre domandarsi se corrisponda a un miglioramento delle politiche sociali ridurre i sostegni all’agricoltura e alle regioni arretrate come il nostro Mezzogiorno per destinarle alla difesa, alla sicurezza e all’immigrazione illecita.

Queste poche annotazioni sul piano di riforma che esaminerà il Consiglio europeo indicano che siamo lontani dall’attuazione degli obiettivi esplicitamente stabiliti dagli accordi europei, ribaditi per ultimo nell’art. 2 del Trattato di Lisbona. Se il Consiglio si concentrasse nella definizione degli strumenti per raggiungerli, allora sarebbe la dimostrazione che veramente si cambia per cambiare.

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