La bagarre alla Camera, chiamiamola pure rissa, dopo la terza e penultima tappa del percorso parlamentare della riforma della giustizia, nota soprattutto per la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici che ne deriverà, ha confermato la tensione nel palazzo, diciamo così. Una tensione paradossalmente prodotta prima ancora che dal contenuto della riforma, dalla sua paternità , essendo stato il governo a promuoverla. Governo dai cui banchi si è partecipato all’applauso dei deputati della maggioranza per i 243 voti a favore del provvedimento e i soli 109 contrari. E’ stata contestata insomma, e dichiaratamente, anche la soddisfazione governativa, aggravata secondo le cronache fiancheggiatrici delle opposizioni, peraltro non unite, dal brindisi che il ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbe poi fatto alla buvette bevendo il solito spritz. E incorrendo nel solito sarcasmo di chi già ne scrive – naturalmente sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano – come “mezzolitro” o “fiasco”.
In attesa della rissa che si ripeterà prevedibilmente al Senato per il quarto e ultimo passaggio parlamentare, mi chiedo se le opposizioni, non so se più fiancheggiate o incitate dai magistrati in agitazione già da tempo contro la riforma, riusciranno a trasferire davvero le tensioni dal palazzo, torniamo a chiamarlo così, al paese, alle piazze e alle urne, quando si svolgerà il referendum cosiddetto confermativo, inevitabile per le dimensioni non del tutto speciali della maggioranza realizzatasi in Parlamento.
Giuseppe De Rita, un sociologo di vecchia, direi pure antica esperienza, con i suoi 93 anni compiuti da meno di due mesi, in una intervista al Dubbio ha dubitato, appunto, dello scenario acceso come vorrebbero le opposizioni. Ed ha prospettato, piuttosto, un referendum di scarso interesse e partecipazione popolare. Un referendum, secondo lui, da addetti ai lavori, specialisti dell’ordinamento giudiziario e contorni. Mettiamoci dentro pure questi.
Vedremo. Intanto, per tornare e rimanere nel Palazzo, al maiuscolo e al singolare di memoria pasoliniana, va doverosamente registrata una circostanza che ritengo particolarmente significativa: una novità sicura rispetto ad una trentina d’anni fa, quando la magistratura godeva della massima popolarità per i colpi che dava alla politica. Allora c’era al Quirinale un ex magistrato, con la toga dichiaratamente nel cuore, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che garantiva pubblicamente i magistrati in servizio che mai avrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere. Oggi al Quirinale un altro presidente della Repubblica, proveniente dallo stesso partito di Scalfaro, ha seguito silente il percorso parlamentare della riforma. Di un silenzio per niente minaccioso, poco importa se più per convinzione o per rassegnazione.