La democrazia italiana è malata? Diciamo che il suo fondamento (la separazione dei poteri) non se la passa bene. Come ha osservato Sabino Cassese, il governo è diventato legislatore. Il Parlamento è diventato esecutore. I giudici esercitano la funzione legislativa con la loro presenza nei gabinetti ministeriali.
La nostra resta, beninteso, una democrazia rappresentativa. Ma quando si recano alle urne quattro elettori su dieci, e quando il partito dell’astensionionismo arriva a livelli patologici come a Taranto, la città devastata dal dramma dell’Ilva dove è andato a votare un elettore su tre, c’è poco da stare allegri. Siamo di fronte al fallimento di quel bipolarismo che, grazie a riforme elettorali “bastarde” (né pienamente maggioritarie né pienamente proporzionali) ha incentivato la creazione di coalizioni fortemente disomogenee, conferendo un enorme potere di condizionamento alle formazioni più piccole e ai notabilati locali.
Questo sistema ha costretto le forze moderate e riformiste, atlantiste ed europeiste, a coabitare da gregarie dentro schieramenti dominati o dalla destra sovranista, o dal movimentismo massimalista di Giuseppe Conte, della sinistra radicale e della Cgil di Maurizio Landini. Ora, per uscire da questo vicolo cieco non c’è che una strada: abbandonare il dogma per cui “la sera delle elezioni dobbiamo conoscere il vincitore”. E accettare l’idea -in armonia peraltro con la Costituzione- che è il Parlamento il luogo in cui si compongono le alleanze di governo.
Per ricostruire il suo primato democratico è quindi necessario un meccanismo di voto autenticamente proporzionale, che spinga le forze in campo a schierarsi senza pateracchi programmatici con la propria cultura politica (se ne hanno una); e che lasci agli elettori la responsabilità di scegliere i loro rappresentanti (preferenze e non le liste bloccate).
Attenzione, però. Come sostiene Enrico Cisnetto in un paper di rara chiarezza, “autenticamente proporzionale” significa che il giusto equilibrio tra rappresentanza e stabilità dell’esecutivo va trovato attraverso un correttivo -l’unico- che eviti la frammentazione, e tuteli la governabilità, senza introdurre elementi distorsivi. E cioè attraverso una soglia di sbarramento elevata, con un diritto di tribuna per chi non la raggiunge, come avviene in Germania (terzarepubblica.it, 29 novembre).
Non c’è pertanto bisogno di inventarsi nulla di particolare, tanto meno di terapie che rischiano di essere nocive per il malato, come la riforma elettorale a cui la maggioranza di governo sembra stia pensando. Un riforma che assegna alla minoranza più forte la maggioranza dei seggi non conquistata nelle urne. Una riforma che nel lontano 1953 fu chiamata “legge truffa”, la quale tuttavia prevedeva un premio in seggi per chi superava il 50 per cento dei consensi (mentre oggi si parla di una soglia attorno al 40-42 per cento).
In conclusione, qualunque marchingegno elettorale immaginato per dare vita a maggioranze fittizie riprodurrebbe, aggravandoli, i difetti del bipolarismo. Lo stesso vale per quella forzatura istituzionale chiamata “premierato” a cui si vuole abbinare un espediente ipermaggioritario.
Nella cosiddetta “Seconda Repubblica” alle leadership politiche sono mancate cura dell’interesse generale e visione del futuro, non poteri formali. Perciò non serve gonfiare artificiosamente questi ultimi per supplire alle carenze delle prime. E, se proprio si volesse andare in tale direzione, anche qui basterebbe rifarsi a ciò che funziona abbastanza bene altrove: il cancellierato alla tedesca.
*Italia Oggi






