Questa mattina ero a Porta San Paolo. Ero lì come iscritta alla Comunità Ebraica di Roma a ricordare, nel giorno della Liberazione, la partecipazione alla guerra contro il nazifascismo della Brigata Ebraica, il reparto militare formato durante la seconda guerra mondiale da volontari ebrei residenti nella Palestina Mandataria e inquadrato nell’esercito britannico.
Già nel dicembre 1940 il Ministero dell’Africa Italiana rilevava la nascita in Palestina di un’unità composta esclusivamente da volontari ebrei, da impiegare nel Vicino Oriente fuori dal territorio, per evitare attriti con l’elemento arabo presente.
Gli inglesi l’avevano costituita come distinta dalla Palestine Special Defence Force, già creata da qualche tempo con arabi ed ebrei in parti uguali e avente compiti di sicurezza.
Il 31 gennaio 1943 il Tripoli Times, quotidiano dell’VIII Armata britannica, raccontava la liberazione di Tripoli riportando la cronaca della prima funzione religiosa celebrata nella sinagoga della città, per opera del generale di brigata Frederick Kisch, ex membro dell’Agenzia Ebraica, insieme al maggiore Rabinowitz, rabbino di campo delle forze armate del Medio Oriente. Le truppe, accolte dal rabbino capo di Tripoli Aldo Lattes, erano guidate dal maggiore C.J. O’Shaughnessy.
Nonostante sia attestata la presenza nell’esercito britannico di compagnie ausiliarie formate da ebrei, fu necessario aspettare fino al 31 ottobre 1944 per avere tre battaglioni in completo assetto costituti come Brigata Ebraica, inquadrata sempre nell’esercito britannico, pronti per lasciare Burg el Arab, negli attuali Emirati Arabi Uniti, per l’Italia. Qui approdarono il 5 novembre a Taranto, per proseguire poi verso Fiuggi, comandati dal generale Ernest Frank Benjamin, rappresentanti lo spirito di libertà e di vittoria contro la dittatura nazifascista. Numerose furono le battaglie a cui presero parte e il ricordo dei loro caduti è custodito nel cimitero di Piangipane, in provincia di Ravenna.
Per ironia della sorte, proprio l’Italia aveva già accolto il Gran Muftì Amīn al-Ḥusaynī, la più importante personalità del mondo arabo e musulmano, giunto a Roma nell’ottobre 1941 in fuga dalla Palestina per aver dichiarato guerra aperta all’Inghilterra e agli ebrei. Su di lui era stata emessa una taglia di 25.000 sterline. Italia e Germania lo ospitarono come utile pedina per la conquista del Vicino Oriente e dell’Africa del Nord e per i piani dello sterminio ebraico.
Oggi, quella piazza di Roma si è ripresentata la stessa storia. Da una parte le bandiere della Brigata Ebraica e dall’altra, separate da un cordone di polizia, quelle palestinesi inneggianti ad Hamas.
La presenza di slogan in appoggio al terrorismo suona quasi ridicolo in una giornata così, dove il concetto di Resistenza viene avvicinato a quello della barbarie e della violenza. Salvo che il messaggio non sia di riprendere ciò che Hussein si era ripromesso di fare attraverso Hitler, declinandolo nella distruzione di Israele in quanto Stato ebraico. Se qualcuno l’avesse raccontato il 25 aprile 1945, i partigiani veri non avrebbero saputo se piangere o ridere.