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Perché il Pd si spappola dopo il referendum

Reazioni e commenti sull'esito dei referendum. La nota di Sacchi.

Se Maurizio Landini, segretario della Cgil, promotore dei referendum ammette secco che “il nostro obiettivo era quello di cambiare le leggi sul lavoro e non lo abbiamo assolutamente raggiunto, non è una vittoria”, Elly Schlein, segretaria del Pd, la principale forza politica sostenitrice della consultazione, si trincera dietro al fatto che quei circa 14 milioni di italiani andati alle urne sono un numero superiore a quello che votò per “le destre” del governo Meloni.

È vero che ha vinto sempre il sì di gran lunga ai 5 quesiti, tranne che sul dimezzamento dei tempi per la cittadinanza, dove secondo le prime stime, i no sarebbero quasi il 40 per cento, ma nella cifra indicata da Schlein ci sono appunto anche moltissimi elettori che non hanno seguito le direttive dem.

Il punto è che il flop del cartello referendario, ben lungi dal quorum, con poco più del 30 per cento di partecipazione al voto è clamoroso. Il quorum non si raggiunge neppure nelle regioni rosse, il governatore Giani della Toscana deve esultare per averlo raggiunto nella sua Sesto Fiorentino.

Ed è subito scontro dentro il cosiddetto campo largo, “definitivamente morto”, secondo Ignazio La Russa, presidente del Senato, cofondatore di FdI, che affonda il colpo dopo essere stato preso di mira nei giorni scorsi per le sue parole favorevoli all’astensione. Matteo Renzi attacca: “Così non si vince, quesiti ideologici, se il centrosinistra vuole vincere, deve costruire un’alternativa al Governo Meloni del 2025 e non al Governo Renzi del 2015. Facciamolo insieme sulle sfide concrete: stipendi, tasse, sicurezza, giovani, sanità. Si può fare ma serve meno ideologia e più politica”.

Renzi non la nomina ma il suo attacco suona evidentemente rivolto innanzitutto a Schlein oltre che a Landini: “Ingaggiare battaglie identitarie fa vincere i congressi, ma non le elezioni”. E Carlo Calenda, il leader di Azione, l’altro rappresentante di quel che resta del centro alleato con la sinistra, quel Calenda riconciliatosi momentaneamente con il leader di Iv, di fronte all’offensiva estremista ingaggiata da Pd, Cinque Stelle e Avs di Fratoianni e Bonelli, va giù ancora più duro. Attacca: “È stato un autogol trasformare questi referendum in una consultazione sul governo Meloni. Serve ora un’area riformista”, fuori dal campo largo e lontana “dalla destra sovranista”.

Ma è scontro anche nello stesso Pd, dove gli esponenti riformisti che non avevano ritirato le schede per i quesiti sul lavoro, con al centro l’obiettivo di abrogare il Jobs act del governo Renzi, ora presentano il conto alla leader. Toni netti di Pina Picierno, Elisabetta Gualmini, Filippo Sensi, Lia Quartapelle.

Malumore nella minoranza del presidente Stefano Bonaccini che evita di affondare il colpo, valorizzando comunque i 14 milioni che hanno votato e chiede un confronto, una “riflessione” in Direzione su “quello che serve per vincere le elezioni, su quello che ha funzionato e non funzionato” fin qui. Ma Bonaccini ammette: “Si è mancato l’obiettivo”. “E quando oltre due terzi degli italiani non rispondono è necessario riflettere”, sottolinea il presidente del Pd. Aggiunge: “Fossi nella destra, tuttavia, eviterei certi toni di scherno”. Va giù più dura la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, che mette agli atti via social: “Una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre”. Che la sinistra esca indebolita e il governo rafforzato è il leitmotiv del centrodestra, dai vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari. Da Palazzo Chigi filtra la constatazione: “L’alternativa al governo Meloni non c’è “.

Schlein dà appuntamento a Meloni alle prossime elezioni. A meno che con la secca sconfitta dei referendum, con cui si voleva dare un avviso di sfratto all’esecutivo, non sia già iniziato il declino della stessa leadership di Schlein, come fanno notare osservatori interni e esterni delle insidiose correnti mai scomparse del Nazareno. Al centro l’eterno, irrisolto scontro tra area radicale e area riformista. Mentre i temi del centro sembrano sempre più essere stabilmente affrontati da quelle che la sinistra chiama con una punta di disprezzo “le destre”.

Ma il Paese, compresi gli stessi elettori del centrosinistra, come fa notare Salvini, con l’astensione massiccia ha dimostrato di non apprezzare una certa deriva estremista delle opposizioni del cosiddetto campo largo o ex largo.

“Il fallimento dei referendum è una buona notizia per l’Italia”, chiosa Raffaele Nevi, portavoce nazionale di FI.

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