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Giorgetti

Che si dice e si pensa al Quirinale sul post Mattarella

Parole, umori e sbuffi di Mattarella sul dopo Mattarella al Quirinale. I Graffi di Damato.

La stampa o l’informazione, come preferite, con la quale se la sono presa al Quirinale nei giorni scorsi, fra stupore e irritazione, per avere premuto troppo su Sergio Mattarella perché si rendesse disponibile ad una rielezione, ha fatto la parte della nuora. Alla quale, secondo un vecchio proverbio, si dice perché suocera intenda. Ma la suocera in questo caso sarebbe un suocero, anzi l’insieme di tre suoceri, quanti sono i firmatari di un disegno di legge presentato al Senato per modificare due articoli della Costituzione. Cioè per abolire il cosiddetto semestre bianco, l’ultimo del mandato in cui il capo dello Stato perde la prerogativa dello scioglimento anticipato delle Camere, e rendere ineleggibile il presidente uscente della Repubblica.

I tre senatori, tutti del Pd, sono in ordine rigorosamente alfabetico, e inversamente proporzionale alla loro notorietà o autorevolezza, Gianclaudio Bressa, Dario Parrini, e Luigi Zanda, già capogruppo al Senato, tesoriere del partito e tante altre cose che contribuiscono a farne una personalità di maggiore spicco, dicevo, rispetto agli altri due.

I tre senatori del Pd meritano una certa comprensione per avere incassato con molto garbo istituzionale il messaggio obliquo del Quirinale, facendo finta di cadere anche loro dalle nuvole, cioè precisando di non avere mai voluto fare pressione su Mattarella per accettare di farsi rieleggere, e quindi scaricando anch’essi la responsabilità del fraintendimento, diciamo così, su noi giornalisti. Ma pure la comprensione ha i suoi limiti.

Non per scortesia, o per tigna, o per “logica corporativa”, che Sergio Mattarella da qualche tempo non si stanca giustamente di criticare quando parla dei o ai magistrati auspicandone addirittura una “rigenerazione”, ma per scrupolo professionale che mi sarà perdonato all’età che ho, dopo una vita trascorsa nelle redazioni, debbo dire ai tre senatori del Pd sentitisi fraintesi dai giornali che il rispetto dovuto, per carità, al presidente della Repubblica non poteva né può autorizzare a non averne per la stampa.

Un disegno di legge come quello da loro preannunciato e infine presentato, in tempo per poter cominciare il percorso prima dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, si prestava legittimamente all’interpretazione che pure ha stupito e persino irritato il pur solitamente calmo, anzi calmissimo Sergio Mattarella. Che ha un po’ smentito o sminuito anche quella capacità di “autoironia” vantata di recente e lodevolmente raccomandata a tutti gli attori della politica, specie a quelli -penso- dei cosiddetti piani alti.

Di fronte alla prospettiva di una modifica costituzionale già proposta da due predecessori e colleghi di partito dello stesso Mattarella, da lui personalmente citati in due circostanze commemorative, era logico, oltre che legittimo, pensare che al presidente della Repubblica potesse essere implicitamente chiesto di garantire il percorso del cambiamento rimanendo per un po’ al suo posto, sulle orme di Giorgio Napolitano nel 2013. Non era certamente uno scandalo -come non lo era stato quello appunto di Napolitano nove anni fa- che si ipotizzava o proponeva a Mattarella.

Non ci sarebbero stati certamente fraintendimenti di sorta se i tre senatori del Pd avessero presentato il loro disegno di legge dopo le elezioni presidenziali del mese prossimo, a successione cioè già avvenuta al Quirinale. O no? I tempi di una iniziativa legislativa, e di quella natura, hanno pur la loro importanza. O, come preferite, offrono pure un angolo particolare dal quale vederla, analizzarla e giudicarla, o raccoglierne l’eco sotto i soffitti decorati del Quirinale.

La frittata comunque è ormai fatta. E conviene a questo punto prenderne solo atto, pur col rammarico che almeno personalmente mi sarà permesso di fronte allo spettacolo non comune offerto dai grillini con una riforma costituzionale -la loro, quella del taglio dei seggi parlamentari- che sta per produrre, fra i vari effetti, l’elezione del presidente della Repubblica da parte di un Parlamento doppiamente delegittimato sul piano politico e del buon senso. Lo è, in particolare, per le nuove Camere ridotte di un terzo dei seggi , dove di sicuro, al massimo dopo poco più di un anno, i grillini non disporranno della maggioranza come nel 2018. E saranno probabilmente in coda ad altri tre partiti che si contenderanno il primato attorno al 20 per cento dei voti ciascuno, non si sa peraltro ancora con quale legge elettorale.

Mi sia consentita un’ultima osservazione. Sinora dal Quirinale hanno lasciato passare senza reazioni la libera interpretazione data da qualche giornale alla smentita opposta alle lamentate finalità tattiche delle modifiche costituzionali proposte dai tre senatori del Pd. Essa consisterebbe nella recondita volontà di Mattarella di non osteggiare la candidatura, da altri invece contestata, di Mario Draghi al Quirinale. Mi chiedo se dobbiamo aspettarci qualche precisazione anche su questo punto, vista l’insistenza con la quale da parte berlusconiana, per esempio, si continua a legare l’ipotesi di Draghi a quella minacciosa di elezioni anticipate. O, come sarebbe forse meglio dire, di una campagna elettorale di soli settanta giorni, o poco più, anziché di un anno e mezzo, quanto durerebbe di fatto con la conclusione ordinaria della legislatura.

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