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Giorgetti

Quelle domande scomode di Galli della Loggia su Afghanistan, Occidente e morte

I Graffi di Damato

E’ giustamente finita sulle prime pagine dei maggiori giornali la foto emblematica della conclusione della missione italiana in Afghanistan nell’ambito del contingente occidentale in ritiro dopo vent’anni d’occupazione. E’ la foto dell’interno dell’ultimo cargo delle nostre forze armate partito da Kabul, affollato di civili afghani – che si spera non si pentano di essersi affidati alla nostra protezione, visti i pasticci che la burocrazia e dintorni sono soliti fare nella gestione anche di questo tipo di immigrazione – e del personale militare e civile d’Italia. Fra cui si nota, col viso stanco ma sollevato, il console Tommaso Claudi distintosi già nei giorni scorsi con quelle foto che lo avevano sorpreso a raccogliere bimbi sollevati con le braccia verso di lui da genitori atterriti, non ancora certi di potersi salvare.

In un reportage dichiaratamente finale da Kabul che mi sembra però scritto più in redazione Il Foglio ha parlato di un’operazione militare italiana “perfetta dentro un disastro americano”, che si sarebbe tentati di condividere vedendo un’altra immagine: quella del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in lacrime alla Casa Bianca parlando delle ultime perdite inflitte in ordine cronologico ai militari americani dai terroristi dell’Isis, non contenti neppure del ritorno dei talebani al potere in quelle terre intrise di sabbia e di sangue. In cui lo stesso Biden sa bene che sono almeno 250 mila gli afghani ai quali il suo Paese non ha potuto offrire i soccorsi che reclamavano per fuggire in tempo da uno scenario secondo loro senza speranza: un tempo che forse avrebbero avuto se la gestione del ritiro delle truppe fosse stata diversa da parte della Casa Bianca e dintorni.

Eppure in questa facile e ricorrente tentazione di prendersela con Biden, per quanto alimentata negli ultimi giorni anche da un esperto di cose americane e mondiali come l’ex segretario di Stato degli Stati Uniti Henry Kissinger, c’è qualcosa che sempre di più non torna. E che ci aiuta oggi a capire, tra domande e analisi, leggendolo sul Corriere della Sera, non un generale, non un politico ma semplicemente un intellettuale, uno storico, un professore universitario come Ernesto Galli della Loggia. Il quale piuttosto che chiedersi come altri se sia giusto o no tentare di esportare la democrazia dove non c’è, o è troppo lontana e diversa dai modelli consoni alla nostra cultura, tradizioni, abitudini e quant’altro, si è chiesto se la “nostra” società, intesa come quella occidentale di cui pensiamo di fare parte, sia davvero attrezzata a compiere una simile, ideologizzata e ideologizzante missione.

La risposta di Ernesto Galli della Loggia è impietosamente negativa. Ci manca quella che l’editorialista del Corriere della Sera chiama “una dimensione per così dire volontaria della morte”, che invece è presente nei terroristi e ne alimenta il fanatismo e il pericolo: singolo come quello del kamikaze che ha appena provocato a Kabul non 90, come si pensava in un primo momento, ma più di 170 morti, ma anche collettivo, o comunitario.

E’ anche per supplire a questa mancata disponibilità alla morte per fini pur nobili nella nostra società che, secondo Galli della Loggia, è mutata la natura stessa degli eserciti che impieghiamo, fatto di militari veri e propri, al servizio della bandiera dello Stato da cui dipendono, ma anche di “mercenari”, di “contractor” esterni, forniti da privati. Che gli americani in Afghanistan hanno usato in abbondanza, e che hanno contributo per più della metà al bilancio dei caduti.

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