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America

Vi spiego il disastro di Biden in Afghanistan. L’analisi di Sechi

Biden ha ragionato pensando agli elettori americani: il Presidente ha giocato la mossa del ritiro (una carta dell'amministrazione Trump che aveva negoziato a Doha gli accordi con i Talebani) da far coincidere con le celebrazioni dell'11 settembre. L'analisi di Mario Sechi, direttore dell'Agi

 

La strage annunciata. La ritirata di Kabul ha un finale scandito dalla morte, siamo di fronte a uno dei giorni più neri della storia americana, il tramonto in culla di una presidenza, quella di Joe Biden, che è già segnata.

I gruppi estremisti presenti in Afghanistan hanno colpito, Isis e Al Qaeda sono entità reali e letali, quello che si chiama “clear and present danger”. Tutti erano informati, avvisati, c’erano fonti aperte chiare e rapporti riservati chiarissimi, ma Biden ha tirato dritto, ha preso una decisione facendosi dettare l’agenda prima da ragioni di politica interna (cercare di capitalizzare il ritiro nel voto di midterm del 2022) e poi, di fronte al crollo delle istituzioni afghane, dalla paura, così ha premuto sull’acceleratore del ritiro, una vera e propria fuga, facendosi dettare i tempi dai Talebani (“entro il 31 agosto o ci saranno conseguenze”).

Così si sono create addirittura le condizioni ideali per un attentato: il caos all’aeroporto, gli ingressi dello scalo trasformati in calca, con una pressione esterna incontrollabile, nessuna possibilità di regolare il flusso della massa di persone disperate. Era solo una questione di tempo. Un’occasione unica per chi ha in mente il caos e vuole tenere aperta la “lunga guerra” trasformandola in una guerra civile. La sintesi l’ha fatta qualche giorno fa l’Economist con una copertina che è una sentenza definitiva: “La debacle di Biden”.

Biden ha ragionato pensando agli elettori americani, di fronte a un partito repubblicano “trumpizzato”, il Presidente ha giocato la mossa del ritiro (una carta dell’amministrazione Trump che aveva negoziato a Doha gli accordi con i Talebani) da far coincidere con le celebrazioni dell’11 settembre (ricordiamo che la data originaria era quella, poi anticipata perché qualcuno aveva fatto notare alla Casa Bianca che si trattava di un boomerang della comunicazione) per dire agli americani che “i nostri ragazzi sono tornati a casa”, Osama Bin Laden (sul quale torneremo tra qualche riga, perché la tragedia s’accompagna alla beffa) è stato eliminato, il nemico è sconfitto, la guerra è finita, il classico “Victory Day” con l’inno e la bandiera.

Poteva funzionare fino a qualche ora fa, perfino con un ritiro così disordinato, ma l’attentato ha smontato definitivamente ogni possibile narrazione vittoriosa, il racconto del grande ponte aereo americano su Kabul è esploso con i kamikaze dell’Isis. I democratici sono frastornati, l’Afghanistan – di cui gli americani si sarebbero (forse) dimenticati in fretta – resterà fissato nella memoria perché il bilancio degli attentati è pesante (siamo a 72 morti e attenzione, sono caduti dodici Marines), il presidente ne esce con lo stigma del “Commander in Chief” inadeguato.

Questo quadro proiettato sul voto di midterm, in caso di riconquista del Congresso da parte dei repubblicani, porterà all’apertura di una stagione di battaglia parlamentare speculare a quella che i Democratici fecero durante la presidenza Trump, dunque apertura di una commissione d’inchiesta, accertamento delle condizioni fisiche e mentali del presidente (invocando il 25esimo emendamento della Costituzione americana) e infine procedura di impeachment di Biden che, ricordiamolo, è in carica da soli sette mesi.

Reggere altri tre anni e mezzo di presidenza in queste condizioni sarà molto complicato. E all’orizzonte non c’è solo l’Afghanistan, è in discussione l’intera agenda Biden e i dem si sono spaccati.

Sul piano internazionale in soli sette mesi è riuscito a incrinare l’autorevolezza della sua presidenza di fronte agli alleati. È vero che i leader europei lo preferiscono a Trump, ma il presidente che doveva riavvicinare le due sponde dell’Atlantico in realtà le ha allontanate, dando un colpo quasi mortale alla credibilità della Nato (quale Parlamento voterà in futuro le missioni militari senza un aspro dibattito interno, l’opinione pubblica smarrita e maggioranze in aula incerte?), mettendo in crisi il rapporto con gli alleati che sconsigliavano il ritiro dall’Afghanistan in estate e avevano timori (negati da Biden e rivelatisi poi fondati) di un collasso dell’esercito afghano, privo di sostegno politico e morale di fronte all’avanzata dei Talebani che andava avanti da settimane.

L’Afghanistan è diventato uno spartiacque geopolitico, un fatto che avrà effetti a lungo termine, mette in moto antiche e nuove forze, offre uno spazio alla Cina (che riempirà il vuoto aperto dagli Stati Uniti), incoraggia i nemici di Israele, suggerisce all’Iran che in fondo la bomba atomica si può fare, riapre il Grande Gioco in Asia Centrale e ha effetti a lunga gittata, conseguenze inattese che scopriremo presto.

Donald Trump, ebbe l’originale idea che accarezzavano tutti gli altri: ritirarsi. Fece piani, contropiani, dichiarazioni, insomma… Trump. Sparò un paio di missili polverizzando il covo di Abu Bakr Al Baghdadi ed ebbe il suo momento da cacciatore di taglie. I generali gli spiegarono che ritirarsi non era un buon affare, lui lasciò fare al Pentagono, perse le elezioni e lasciò il caso aperto a un altro presidente. Joe Biden l’ha chiuso. E vent’anni dopo ha riaperto il cancello di un mondo in fiamme. Ha ragione il segretario di Stato Antony Blinken, Kabul non è Saigon, è peggio. Good Morning, Afghanistan.

(Estratto di un articolo pubblicato su Agi; qui la versione completa)

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