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Quanto liberalismo c’è nel governo M5S-Lega? Ecco il mio pensiero

“Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e autore del recente saggio “La cultura liberale – Breviario per il nuovo secolo”

 

Recentemente mi è stato chiesto un contributo per un volume collettaneo sui primi mesi del governo gialloverde. Il tema a me assegnato concerne il liberalismo: quanto ne ha questo esecutivo? Poco, molto, così così? E perché è così? Ed è un bene o un male?

Ovviamente, la prima risposta che mi è venuta suonava facile facile: il tasso di liberalismo presente nelle vene di questo governo si approssima allo zero. Ho poi aggiunto, avendo una mentalità che riconduce tutto sempre alla storia: “Come sempre”. C’è mai stato un governo che in Italia si sia distinto per i suoi tratti liberali? E anche quelli che, quando il termine era à la page (oggi francamente non più), si definivano tali, o addirittura propugnavano una “rivoluzione liberale”, nei fatti lo erano veramente?

Bene, avrei potuto finire qui, ovviamente argomentando e controargomentando le mie sensate tesi. Che però mi lasciavano un che di insoddisfatto, soprattutto perché io non sono pregiudizievolmente contrario, come il novanta per cento e più dei commentatori, a questo governo, che invece gode ancora di ampio consenso elettorale.

Ho fatto allora autoriflessione: ho pensato cioè me stesso nel mentre pensavo le belle e sensate cose suddette. Cosa avevo fatto io? Quale metodo di comprensione, o metro di giudizio, avevo usato? Non ho avuto dubbi: avevo preso un modello, più o meno astratto e più o meno condiviso, di liberalismo e l’avevo applicato alla realtà in atto per rispondere al quesito propostomi.

Operazione legittima, forse, in certi contesti, ma che sicuramente andava a cozzare con quel che io ho sempre pensato e scritto che fosse il liberalismo, ricollegandomi ovviamente a una lunga tradizione di pensiero e cultura liberale. Avevo usato cioè un metodo deduttivo, ero cioè partito dall’alto, cioè dalla pura e aerea logica, ed ero quindi sceso in basso, misurandomi cioè solo in seconda istanza con quella “feccia di Romolo” che per molti aspetti è e continua a essere, almeno in parte (e forse per fortuna), la realtà.

Non avevo invece io sempre scritto nei miei libri che il liberalismo, che non è ma si fa, non è un’ideologia come le altre, e proprio per questo non è destinata a tramontare, proprio perché parte dalla realtà e non giunge ad essa dalla fine logica di ragionieri, matematici e teorici del diritto e delle scienze sociali? Il liberale, per come lo vedo io, è colui che la realtà cerca in prima istanza di capirla con curiosità e partecipazione umana, senza troppo coprirsi gli occhi con pregiudizi e tesi precostituite. Preso atto di essa, egli prova, a partire dalle condizioni date, a individuare le soluzioni o gli sbocchi di libertà che permette o promette di poter far perseguire a chi è dotato di buona volontà. Soluzioni e sbocchi sempre variabili e non predeterminabili a priori, casomai in “ricette” liberali valide sempre e comunque (tipo il Mercato, la Tolleranza, i Diritti Umani, e chi più ne ha più ne metta).

Un liberalismo metodologico molto intriso di realismo politico e senso storico, il mio. Fedele alla tradizione italiana del pensiero, quella dei Niccolò Machiavelli e Giambattista Vico per intendersi (che pure certo liberali non erano). L’unico liberalismo credo adatto a capire il mondo, ad esempio quello nuovo, politico e non, che abbiamo sotto gli occhi e che è in rapida evoluzione. E a cercare, appunto, di incanalarne in un senso di libertà i possibili o prevedibili esiti.

Purtroppo, quella a cui oggi assistiamo nel milieu culturale e giornalistico, coperta dalla retorica della “competenza”, è per la più una profonda mancanza di curiosità: è come se questa conditio sine qua non del lavoro intellettuale fosse venuta meno e gli intellettuali volessero solo trovare conferma nel reale alle proprie tesi rassicuranti e politicamente orientate. La realtà, poiché questa conferma non può darla, viene perciò sconfessata e emendata, e affrontata con le strategie retoriche, anche esse molto in voga, dell’indignazione e del moralismo a buon mercato.

Il lavoro del liberale è però, a mio avviso, più umile e più affascinante insieme. Non è quello di porsi di fronte al mondo come un ariete, pieni delle proprie certezze, ma di scendere e vivere in esso affermando la libertà nel concreto delle situazioni e non nella vuota astrattezza teologale dei dogmi. Esiste infatti anche una teologia o una dogmatica sedicente liberale. Essa va scansata non per opportunismo o pragmatismo, ma semplicemente perché, a ben vedere, liberale proprio non è.

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