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incidenti sul lavoro

Qual è il vero problema (irrisolto) degli incidenti sul lavoro?

Nel dibattito italiano sulle cause degli incidenti sul lavoro, mentre i sindacati accusano gli imprenditori e gli scarsi controlli, il governo annuncia nuovi fondi ma quello che manca è una vera diagnosi su cause strutturali come formazione tecnica reale, competenze nei general contractor e percorsi strutturati di inserimento lavorativo. L’intervento di Massimo Balducci, già full professor allo European Institute of Public Administration di Maastricht

 

La ricorrenza del primo maggio è stata monopolizzata da un argomento principale: gli incidenti sul lavoro. I sindacati ne hanno chiaramente dato la colpa agli imprenditori sfruttatori ed al Governo che non dedica sufficienti risorse per rafforzare i controlli. Il Governo, da parte sua, reperisce un miliardo e 300 milioni aggiuntivi da impegnare nel contrasto al fenomeno.

Quello che manca al dibattito è una seria diagnosi sulle cause del problema. Tra queste non può essere annoverata la cosiddetta pratica dei subappalti, oggi indispensabile non per tagliare sui costi del lavoro ma per l’alto livello di specializzazione che le singole produzioni richiedono. Quello che il dibattito non ha messo in evidenza è il fatto che per poter realizzare una produzione basata su subappalti assegnati a ditte piccole ma focalizzate su di una specializzazione specifica si richiede che chi si aggiudica il primo livello degli appalti sappia svolgere la funzione di general contractor o di main contractor. Cosa non evidente e che non viene pressoché mai richiesta come condizione dalle stazioni appaltanti sia private che pubbliche. Esistono percorsi formativi e di accreditamento dei general e main contractors? Qui l’asino casca una prima volta.

Nel dibattito sugli incidenti sul lavoro si cita spesso il tema della formazione. A quale formazione ci si riferisce di solito nel dibattito? Alla formazione sulla sicurezza. E qui casca l’asino una seconda volta. Pensiamo che sia veramente possibile insegnare ad un falegname ad evitare incidenti facendogli dei corsi sulla sicurezza? O piuttosto la sicurezza non va imparata come conseguenza intrinseca di un più vasto e profondo processo di formazione al “saper fare” dei futuri falegnami? Ha senso insegnare a non correre rischi nell’utilizzo delle seghe elettriche o piuttosto l’utilizzo sicuro va insegnato ed appreso nel corso della formazione su come tagliare i vari tipi di legname per gli scopi diversi cui possono essere destinati?

Queste prime due tematiche ci rimandano alla necessità di mettere ordine nella congerie di politiche attive del lavoro che non sono tra di loro coordinate e che non hanno un elemento unificante. Riassuntivamente le politiche attive del lavoro da noi sono riconducibili a tre filoni tra di loro scoordinati: iniziative dello Stato (esempio il programma goal), iniziative delle singole regioni per lo più finanziate con risorse della UE, i così detti fondi interprofessionali (si tratta dello 0,30% dei contributi versati per ogni lavoratore che vanno finalizzati alla formazione). Qui va innanzi tutto rimarcato che buona parte di queste risorse non vengono effettivamente spese. I fondi interprofessionali restano in buona parte all’INPS per la macchinosità del sistema. I fondi regionali per le note difficoltà a spendere di tutte le nostre pubbliche amministrazioni. I programmi ministeriali perché mal tarati e di fatto rifiutati dagli operatori. In effetti quello che manca è una definizione dei contenuti professionali dei vari profili, definizione che dovrebbe guidare sia le attività formative che l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Va qui rammentato che su questo punto l’Italia è latitante per quanto riguarda lo European Qualification Framework.

C’è un terzo punto del nostro mondo del lavoro che non viene presidiato e il cui controllo contribuirebbe, tra l’altro, a contenere i rischi di incidenti. Si tratta della fase di inserimento del neo-assunto, del così detto onboarding. Sopra le Alpi è diffusa la pratica di far seguire ai neoassunti percorsi iniziali (più o meno lunghi) di orientamento. Nella nostra cultura la fase dell’apprendimento (sia dell’apprendimento dei saper fare tecnici propri del proprio profilo che della familiarizzazione con le pratiche specifiche dell’organizzazione in cui si opera) è tutta demandata all’affiancamento, alla disponibilità dei colleghi ad insegnare al neoreclutato. Il rifiuto del lavoro che oggi si riscontra in molti giovani esplode proprio in questa fase: la confusione che accoglie il neo-reclutato suscita in questo un tale disagio che non raramente lo porta alla rinuncia.

Qui vanno fatte delle considerazioni più generali. Innanzi tutto va rimarcato che i tre elementi che abbiamo enucleato qui sopra (mancanza di professionalità del general e main contractors, mancanza di un sistema di formazione generalizzato ai “saper fare” concreti caratteristici dei vari profili professionali, mancanza di pratiche di onboarding) danno luogo ad una cultura organizzativa vaga e pressapochista che rappresenta non solo l’ambiente migliore per l’incidente ma anche la causa principale della bassa produttività delle nostre organizzazioni (sia private che pubbliche). Aggredire questi tre cardini del mondo del lavoro è l’unico modo per modernizzare seriamente il sistema Italia. Per aggredire questi tre cardini bisogna superare un problema generalizzato del nostro mondo del lavoro: la mancanza di dialogo tra datori di lavoro e sindacati, mancanza di dialogo generalizzata che si manifesta in maniera significativa nella ritrosia di certi sindacati (segnatamente la CGIL) a partecipare attivamente ai consigli di sorveglianza.

Nell’Italia repubblicana quando si pensa al lavoro si pensa al lavoro subordinato. Il primo articolo della nostra Carta Costituzionale (l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro) viene letto come se ci fossero solo i lavoratori dipendenti. Ci si dimentica che l’articolo (fortemente voluto da Fanfani) ha una chiara origine nella cultura corporativa del lavoro, dove solo chi è inserito attivamente nel mondo del lavoro ha diritti politici, indipendentemente dal ruolo che gioca nel mondo del lavoro (imprenditore, coordinatore, esecutore). Qui il CNEL è chiamato a svolgere un ruolo pesante.

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