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A che gioco gioca il Qatar?

Il legame fra Qatar e Hamas ha una lunga storia che passa dai rapporti con l’Iran, l’Egitto, la Turchia, gli Accordi di Abramo e finanche da Israele. L'intervento di Giordana Terracina.

Accantonata, almeno per ora, la guerra Iran-Israele, il fronte di Gaza torna a essere centrale dal punto di vista strategico, mediatico e politico, nella Regione del Vicino e Medio Oriente e con esso la questione palestinese, catturando nuovamente l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa. In tale contesto, dai risvolti così mutevoli, un attore continua a imperversare sulla scena, il Qatar.

Uno Stato il cui ruolo è passato da quello di finanziatore dell’organizzazione terroristica di Hamas, a quello di promotore e sede dei negoziati tra Hamas e Israele per il rilascio dei prigionieri israeliani ancora nelle mani dei terroristi e infine quello di bersaglio dei missili iraniani, per la presenza di basi dell’aviazione statunitense.

Il legame lo Stato islamico all’organizzazione terroristica ha una lunga storia, che passa dai rapporti con l’Iran, l’Egitto, la Turchia, gli Accordi di Abramo e finanche da Israele.

Partendo dal primo decennio degli anni 2000, è possibile ricostruire il contesto in cui è maturata la scelta dello Stato ebraico di accettare il finanziamento di Hamas da parte del Qatar, arrivando a parteciparvi attivamente come si vedrà in seguito.

Una scelta che a fronte dell’attacco del 7 ottobre 2023, appare incomprensibile.

La data spartiacque è quella del 23 ottobre 2012, quando l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani fu il primo capo di Stato ad andare in visita a Gaza, schierandosi apertamente dalla parte di Hamas, preferendola all’OLP di Mahmoud Abbas. Si optò per questa soluzione mentre l’organizzazione si stava allontanando dalle posizioni dei Fratelli musulmani, per avvicinarsi sempre di più all’Iran. Hamas, in origine Hakarat al Muqawarna al Islamiyya (Movimento Islamico di Resistenza), poi divenuta la traduzione di “zelo”, era nata sulla scia della rivoluzione iraniana del 1979 come movimento islamista di risveglio della Fratellanza musulmana in chiave jihadista, rivolta contro l’occupante israeliano e in concorrenza con l’OLP (organizzazione per la Liberazione della Palestina) nella direzione dell’Intifada. Un tentativo dei Fratelli musulmani, con a capo lo sceicco Ahmad Yassin, di canalizzare lo “zelo” religioso della popolazione palestinese in quello che Gilles Kepel chiama, nel suo “Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico”, un “progetto specifico della società”, in grado di rendere i giovani dei ceti più poveri portatori di un messaggio di un Islam autentico, in contrapposizione a una degenerazione sociale frutto di una “depravazione ebraica”. Un richiamo a una vita etica, che facesse da collante sociale e allo stesso tempo che fosse capace di chiamare al jihad (sforzo), inteso nel suo significato di guerra santa nella via di Allah. Il diritto musulmano considera il mondo diviso in due zone: dar al-harb, dimora della guerra e dar al-islam, dimora dell’islam. Gli Stati che sono soggetti a governi musulmani costituiscono la dar al-isla, mentre i restanti sono considerati terra degli infedeli, contro i quali i musulmani si trovano in stato di guerra finché tutto il mondo non verrà assoggettato all’islam.

Una volontà di creare un movimento di resistenza con fondamenta islamiche, diretto alla distruzione di Israele, più che interessato allo sconvolgimento dell’ordine internazionale.

I primi anni del 2000 non furono facili per il leader Isma’il Haniyeh, sopraffatto dalla risposta israeliana a seguito del rapimento e l’uccisione di tre giovani israeliani attuata con l’operazione “Margine di protezione” nell’estate 2014, con l’Iran impegnata in Siria in difesa di Assad e quindi più vicina alle posizioni di Hezbollah e con il Qatar e la Turchia preoccupate per la svolta egiziana, dopo il rovesciamento del presidente Morsi.

Solo nel 2018 Hamas arrivò alla conclusione di un accordo con lo Stato ebraico, diretto a ottenere una tregua dal terrorismo islamista in cambio del pagamento a Israele, da parte del Qatar, dell’energia necessaria allo svolgimento della vita a Gaza e dei salari degli impiegati dell’organizzazione palestinese. Tutto ciò, peraltro, avvenne con il placet del nuovo capo dei servizi segreti egiziani, Abbas Kamel.

Verso la fine dell’anno arrivarono i primi 90 milioni di dollari, dei 160 previsti nei sei mesi seguenti. Contestualmente venne ripristinata la possibilità di effettuare dei trasporti marittimi di merci con Cipro.

Una sospensione degli scontri destinata, però, a infrangersi contro l’ostilità di fazioni ancora più estremiste rispetto ad Hamas, che ripresero il lancio di missili contro lo Stato ebraico, dietro l’appoggio incondizionato dell’Iran e che ebbero come diretta conseguenza la sospensione dei finanziamenti.

Solo a inizio estate si ebbe un nuovo versamento di 30 milioni di dollari, a cui si aggiunse il sostegno dell’UNRWA (United Nations Relief and Work Agency), impegnato nei campi profughi, soprattutto per il suo contributo nella scolarizzazione dei bambini.

Un aiuto necessario per un’economia basata sul contrabbando e sull’uso spregiudicato di tunnel scavati soprattutto nella zona di confine con l’Egitto, nel valico di Rafah.

Scrive Gilles Kepel nel suo “Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’occidente si decide in Medio Oriente”: “Dato il malfunzionamento del settore bancario di Gaza e il fatto che le transazioni debbano avvenire in contanti, lo sbalorditivo spettacolo delle limousine nere che arrivano con valigie di banconote, facendo la spola ogni mese tra l’aeroporto di Tel Aviv e Gaza sotto la scorta del Mossad e con la benedizione del Cairo, ha suscitato l’ironia – o l’ira – di un certo numero di commentatori”.

Una via costruita tra Israele, i servizi segreti egiziani e il governo di Doha, consapevoli del pericolo che un‘organizzazione come Hamas troppo vicina ai Fratelli musulmani avrebbe rappresentato.

La crescita demografica che procedeva e procede tutt’ora su ritmi sempre più accelerati, la crisi del lavoro dovuta alle limitazioni per motivi di sicurezza attuate da parte dello Stato ebraico, sono fattori di preoccupazione per tutta la Regione. Tutto ciò nonostante Gaza riceva aiuti economici dall’UNRWA, dall’Unione Europea e dal Qatar.

Contraria all’equilibrio raggiunto, nel 2020 l’Iran riattivò gli attacchi da parte di Hezbollah e Hamas (soprattutto attraverso le brigate Izz al-Din al-Qassam) contro Israele, sfruttando l’intenzione di porsi come elemento trainante nella questione palestinese, dopo che la conclusione degli Accordi di Abramo, firmati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein con Israele il 13 agosto, l’avevano relegata in secondo piano, suscitando il mal contento degli abitanti di Gaza. Nello stesso periodo in Turchia Erdogan ricevette il capo dell’ufficio politico di Hamas e “primo ministro” della Striscia di Gaza, Haniyeh, che proseguì poi il suo tour con una visita il 1° settembre in Libano, da dove mancava dal 1992, ovvero da quando Israele lo aveva relegato assieme ad altri dirigenti dopo l’uccisione di un sottoufficiale dell’esercito dello Stato ebraico. In questa occasione questi venne in contatto con dirigenti di Hezbollah. Un incontro che permise ad Hamas di apprendere la tecnologia missilistica e di ricevere un addestramento militare più completo e sofisticato. In Libano il capo palestinese fu accolto da Hassan Nasrallah, segretario generale del partito di Dio. Il viaggio previde una tappa del campo profughi palestinese di Ain al-Hilweh, luogo di radicalizzazione islamista, dove venne accolto in trionfo, eclissando in tale circostanza i leader dell’OLP.

Il riavvicinamento con le fazioni palestinesi proseguì poi con il suo rientro a Istanbul, quando accolse Jibril Rajoub, segretario di Fatah, partito storico in seno all’OLP.

Haniyeh in tale periodo è consapevole della sua posizione di forza, datagli dall’appoggio dell’Iran, del Qatar e della Turchia e che lo rende centrale nella resistenza contro il governo israeliano, soprattutto a fronte degli insuccessi perseguiti dall’Autorità palestinese, ferma nella sua linea negoziale verso lo Stato ebraico, con l’Egitto e l’Arabia Saudita impegnati su altri fronti.

In un quadro regionale così complesso, con Hamas sempre più forte ed Hezbollah pronta e armata sul fronte del Libano, la pace risultava essere un’illusione più che una soluzione.

Un vantaggio che l’Iran non si è lasciato scappare e che ha sfruttato appieno con l’eccidio del 7 ottobre 2024 perpetuato a opera di Hamas, mediante l’infiltrazione nel territorio israeliano di terroristi, i quali non hanno trovato alcuna resistenza da parte dell’esercito israeliano, impegnato maggiormente sul fronte della Cisgiordania.

Una scelta di guerra aperta allo Stato ebraico, ribadita nel gennaio 2024 per il tramite del responsabile dell’organizzazione palestinese all’estero, Khaled Meshal, che nella sua dichiarazione rilasciata sul social network Telegram, ha coniato quello che sarebbe divenuto uno dei più urlati slogan nelle manifestazioni a favore di Hamas post 7 ottobre: “una Palestina dal mare al fiume e dal nord al sud”, cancellando in sostanza l’esistenza dello Stato d’Israele.

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