Può una fotografia fermare una guerra? Se lo chiedono anche i non credenti dopo lo storico “clic” di Donald Trump e Volodymyr Zelensky faccia a faccia nella basilica di San Pietro, sabato scorso, perché tutti sperano nel miracolo. Il miracolo di una difficile tregua intravista o semplicemente immaginata dopo le parole mai finora pronunciate da coloro che contano, e a cui bisogna per forza aggrapparsi.
Innanzitutto le parole di Trump sull’onda della “storica” foto, com’è stata subito battezzata per gratitudine a Francesco, il Papa della pace, che in qualche modo ha suggellato -è bello pensare- quell’incontro forse decisivo nelle ore in cui l’intero universo l’omaggiava.
“Putin non vuole la fine della guerra, mi prende in giro”, ha scritto, infatti, per la prima volta il presidente statunitense, lamentandosi e cercando, in tal modo, di mettere con le spalle al muro l’amico russo a cui finora aveva concesso un credito politico gratuito e smisurato.
Ma per la prima volta l’effetto potente di quella santa fotografia ha toccato pure lo Zar, cioè il mai pentito aggressore. Il quale, invece, e stando alla fonte più ufficiale delle sue fonti, il Cremlino, ora sarebbe disponibile a negoziare una pace “senza alcuna precondizione”.
Se così davvero fosse, e lo si potrà presto constatare (l’amministrazione nordamericana ha già chiarito che entro questa settimana tutte le carte dovranno essere sul tavolo; Trump, insomma, non ha più voglia d’essere “preso in giro”), s’aprirebbe un inedito e concreto spiraglio dopo tre anni e oltre due mesi di incessante conflitto.
Ma sarà davvero così, per un uomo che non ha dato tregua agli ucraini neppure nelle trenta ore di tregua pasquale che aveva proclamato? E che ora la rilancia, riproponendola dall’8 al 10 maggio. Con la facile risposta di Kiev (“la tregua duri un mese e scatti subito”) e della Casa Bianca, che la sollecita, ragionevolmente, in modo permanente. Non s’è mai vista una trattativa, mentre una delle due parti continua a bombardare.
D’altra parte, la tregua non può essere solo un mezzo per far tacere le armi. La tregua è il fine che l’Ucraina e l’Occidente reclamano. Ma la tregua si fa in due e spetta a chi spara fare la prima mossa verso chi spera.
Vedremo se quel colloquio immortalato e quasi da confessionale fra Trump e Zelensky riuscirà a cambiare il destino del conflitto. Di sicuro ha cambiato la percezione del mondo verso quell’uomo piccolo e vestito di nero che provava a spiegare all’altro uomo grande e grosso come stanno le cose, quando dall’altra parte i missili te li lancia Putin giorno e notte. Agli occhi dell’universo il presidente ucraino non è più quel paria maltrattato e cacciato dalla Casa Bianca, soltanto un paio di mesi fa.
Zelensky non appare più né solo né abbandonato. Forse per questo lo Zar, che tutto può permettersi, fuorché ingannare il suo comprensivo amico americano, cioè un Trump infastidito, adesso butta lì l’idea di una “treguetta”. Comunque è la conferma che Putin rispetta solo il linguaggio della fermezza, non il suadente canto dell’accondiscendenza.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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