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Repubblica

Chi e come condisce di fuffa la riforma del premierato

La riforma costituzionale di Meloni porterà davvero a una Terza repubblica? I Graffi di Damato.

Sono trascorsi 44 anni anche per la mia anagrafe dal 1979, quando il tema della riforma costituzionale fu posto da Bettino Craxi spaccando la sinistra ancor più di quanto non fosse già avvenuto tre anni prima con la sua elezione a segretario del Partito Socialista, e sorprendendo la Democrazia Cristiana. Cui pure egli aveva appena restituito la possibilità di tornare a governare senza i comunisti dopo la fase della cosiddetta solidarietà nazionale.

LA TERZA REPUBBLICA DI MELONI?

Con tutto questo tempo alle spalle chissà se ce la farò personalmente a vedere la terza Repubblica annunciata, promessa e quant’altro dalla premier Giorgia Meloni. Che ha colto curiosamente come occasione per farlo un falso evento, a dir poco, come il “congresso democristiano” di cui ho letto da qualche parte a proposito di un convegno organizzato a Saint Vincent, come faceva ai suoi tempi il compianto Carlo Donat-Cattin per e con la propria corrente, dall’inguaribilmente ottimista Gianfranco Rotondi. Il quale, in attesa che davvero la sua Dc torni in vita, almeno a livello nazionale, visto che in Sicilia qualcosa sta davvero facendo l’altro inesauribilmente ottimista Salvatore Cuffaro, si è fatto rieleggere parlamentare nelle liste dei Fratelli d’Italia.

Una terza Repubblica davvero, con tanto di Costituzione cambiata, prendendo per buona la seconda nata nel 1993 con la modifica referendaria del sistema elettorale – e inaugurata l’anno dopo da Silvio Berlusconi vincendo le elezioni col nuovo metodo e approdando a Palazzo Chigi – sarebbe un evento di per sé positivo per la chiarezza insita in un cambiamento istituzionale. La cosa non mi spaventa, a dispetto dell’allarme lanciato dall’omonimo giornale con quel titolo da spaventapasseri come “Le mani sulla Repubblica”, sovrastante in prima pagina ai pur drammatici sviluppi della situazione a Gaza e, più in generale, in Medio Oriente.

Meglio le mani, prima del governo con un suo disegno di legge e poi del Parlamento con la doppia approvazione di ciascuna delle due Camere e l’eventuale conferma referendaria, mancata ai tentativi di Silvio Berlusconi prima e di Matteo Renzi poi, che i piedi sulla Repubblica. Come, a mio avviso, per quanto potrà questa opinione sembrare blasfema a tanti costituzionalisti di fatto e di diritto, pubblicisti o professionisti come veniamo distinti anche noi giornalisti, è avvenuto e avviene da una trentina d’anni a questa parte. Da quando, per esempio, si consente ai magistrati di creare leggi con sentenze cosiddette creative sostituendo il Parlamento. O, sostituendosi questa volta alla Corte Costituzionale, di considerare illegittime quelle non gradite o non condivise e di rifiutarne l’applicazione. O, ancora, come stanno facendo da qualche tempo governi di vario colore politico, anche opposto, mettendosi sotto le scarpe, a proposito dei piedi, il bicameralismo cosiddetto paritario ancora in vigore sulla carta per discutere davvero la legge di turno in una Camera, accettandone o promuovendone modifiche, e farla di fatto ratificare dall’altra, col ricorso alla fiducia e simili. E ciò per ragioni non si sa se più di tempo o di paura che non regga alla prova la maggioranza. Sfido i costituzionalisti a smentirmi.

In questa situazione – ripeto – mi sembra improprio, inopportuno, diciamo pure arbitrario temere più le mani nella Repubblica, e nella sua Costituzione, che i piedi sull’una e sull’altra.

CHI GIOCA SPORCO SUL PREMIERATO

È già accaduto in passato e vedo che è già cominciato anche questa volta un altro gioco sporco da affiancare al dibattito pubblico e al percorso parlamentare di una riforma costituzionale. È il tentativo di coinvolgere il presidente della Repubblica in carica indicandolo come la vittima designata del riformatore di turno, interessato a tagliare le unghie e qualcosa anche d’altro al capo dello Stato che si fosse rivelato troppo attivo, troppo invadente, o solo troppo scomodo o imprevedibile. La cui autorevolezza – si sostiene, per esempio – verrebbe automaticamente a ridursi con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, cioè col premierato al quale si è convertita la destra della Meloni dopo avere preferito in passato, col “presidenzialismo”, l’elezione diretta invece del capo dello Stato.

Eppure Ilvo Diamanti, che non è il cartomante che ci capita di incontrare all’angolo della strada di casa o d’ufficio, ci ha appena informati e spiegato con i dati dei sondaggi Demos, che l’elezione diretta di un’autorità di cui ci fidiamo non è per niente un elemento dannoso. E’ solo un elemento rafforzativo della volontà popolare, dalla quale già dipende la scelta diretta del sindaco e del cosiddetto governatore regionale, senza che né l’uno né l’altro possano essere avvertiti davvero come cacicchi se non da chi in realtà vorrebbe essere più cacicco di loro. Ogni allusione a Massimo D’Alema, che una volta mostrò questa tendenza, non è casuale ma voluta.

Prima ancora dell’’uscita della riforma costituzionale dal cantiere governativo e dell’avvio del percorso parlamentare La Stampa ha voluto informarci, bontà sua, che “Il Colle è pronto al via libera”. Forse ha giocato sul giornale di Torino il recente infortunio di una smentita oppostagli dal Quirinale per una lettura critica o persino oppositoria nei riguardi del governo di certi discorsi pronunciati dal presidente della Repubblica in tema di immigrazione e sanità. Ma al Foglio sono invece risultati “dubbi” del Colle sul premierato imboccato dal governo. Che pure al capo dello Stato ha già pagato il dovuto, ammesso e non concesso che ce ne fosse il bisogno, precisando che la riforma costituzionale è stata studiata e sarà gestita in modo da entrare in vigore solo quando sarà terminato, nel 2029, il mandato doppio dell’attuale presidente della Repubblica.

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