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Magistratura

Politica, magistratura e avanspettacolo

Considerazioni a margine dell'assoluzione di Silvio Berlusconi. Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

È stata una bella gara. La figlia Marina si è immolata esclamando che sì, giustizia è fatta, ma il prezzo pagato è stato troppo alto: immolata all’inevitabile, fin troppo prevedibile battuta del Fatto che suonava all’incirca così: “Certo, con tutti i milioni sborsati alle olgettine…”.

I fedelissimi di Forza Italia si sono immolati a loro volta, consapevolmente, con l’ennesima inutile richiesta di indagine parlamentare sull’uso politico della giustizia, richiesta inutile perché gli esiti di una siffatta inchiesta stanno già scritti nelle collezioni dei giornali e periodici e nei troppi libri che ingombrano i nostri scaffali. Il grande magistrato che, raggiunta l’età della quiescenza – ma non necessariamente della quiete – esercita il proprio magistero sulle pagine dei quotidiani (ma lo faceva anche prima), senza immolarsi segnala l’ipotetico rischio che il Tribunale nell’assolvere il pluridecennale imputato possa essersi sentito intimidito dalla mancata costituzione di parte civile dello Stato italiano; come se, per assicurare nei fatti l’indipendenza della giustizia, lo Stato ipoteticamente debba sostenere l’accusa non solo attraverso i magistrati preposti, ma anche “in proprio”.

Non è mancato un ricco dibattito sul “cavillo” che avrebbe permesso l’assoluzione per insussistenza del fatto, in quanto le persone sentite come testimoni avrebbero dovuto esserlo in veste di potenziali coimputati, con le connesse garanzie e immunità: più che un cavillo, la base stessa dello stato di diritto, come ha giustamente fatto notare Mattia Feltri che però, subito dopo, ha lasciato intendere che chi cavalca la cavillosità del cavillo (di fatto l’esteso schieramento degli avversari del Cavaliere) opta per lo stato etico. Anche Feltri, alla fine, ha deciso di immolarsi: qualcuno è disposto a credere che il Cavaliere e il suo storico antagonista, l’Ingegnere, nutrano il più esile interesse per lo stato etico?

C’è un antico detto popolare che recita “c’entra come il culo e le quarant’ore” e prima di parlare o scrivere di etica a proposito dell’interminabile faida tra la fazione del Cavaliere e quella dell’Ingegnere bisognerebbe sempre ripeterselo.

Resta che il rapporto tra la giustizia (o per meglio dire, i magistrati) e il potere continua a essere un rospo che la società italiana non riesce né a sputare né a ingoiare, e ogni volta che il tema torna di attualità vengono inflitte al pubblico da una parte le intemerate dei magistrati che appena si parla di separazione delle carriere montano sulle barricate e dall’altra i voli dei “laici” che si esibiscono in promesse di “riforma” della giustizia mediamente prive di credibilità.

Concettualmente la questione del rapporto tra magistrati e potere non è complicata. Come ha scritto, in un articolo insolitamente compassato di qualche giorno fa, Giuliano Ferrara “tutto ruota intorno alla questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo (…) e, di converso, intorno alla tutela del potere elettivo da intromissioni indebite del giudiziario che fa politica, che fa scelte in contrasto obliquo con la volontà popolare”.

Tanto è semplice concettualmente quanto è intricata nei fatti, la questione. L’America l’ha risolta da molto tempo affidando al popolo la nomina dei magistrati (ma non di quelli della Corte Suprema che invece è affidata alla scelta dell’Esecutivo e al controllo del Legislativo). In Francia il presidente della Repubblica è “garante” dell’indipendenza dei giudici che, essendone “garantiti”, gli sono in qualche modo sott’ordinati. Tutti i sistemi hanno dei pro e dei contro, quello italiano è… italiano.

L’articolo 104 della Costituzione stabilisce che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. La magistratura, insomma, non è un potere (è un “ordine”). Però è autonoma e indipendente da ogni “altro” potere: potremmo pensare che gli autori della costituzione più bella del mondo avessero qualche problema con la lingua italiana, ma purtroppo sappiamo che i legislatori di casa nostra l’italiano lo sanno fin troppo bene, e lo immolano alla vera divinità che governa i nostri destini, che non è né Dio né Mammona ma semplicemente l’ambiguità.

Astuti oltre che paterni, i padri costituenti hanno finto di collocare la magistratura in un empireo, pur sapendo benissimo che la sopravvivenza di qualsiasi stato richiede un minimo di coesione tra i diversi poteri e che, sebbene governo e magistratura facciano due mestieri diversi, ci sono circostanze in cui la mancanza di coordinamento può essere esiziale. Hanno lasciato ai loro eredi il privilegio di regolamentare la questione, se mai ne avessero avuto voglia.

Quel che emerge con chiarezza cristallina dai libri di Luca Palamara è il modo in cui questo coordinamento si attua in Italia. Lo si fa attraverso interminabili trattative che riflettono assetti più o meno volatili tra fazioni – sia sul piano politico, sia su quello corporativo, sia tra i due piani – e che si traducono in lunghe catene di scambi di favori (che però non comportano necessariamente, e forse nemmeno così frequentemente, illeciti). Ogni tanto il meccanismo si inceppa e dev’essere riavviato: arrivano i virus informatici, esplode lo scandalo e al riparo del frastuono dello scandalo la macchina riparte.

Una dinamica che ricorda il “modello normativo” del Palio di Siena.

Si parla di verità banali ma, in un paese dove – come ha detto Ennio Flaiano – la linea più breve che unisce due punti è l’arabesco, sono verità impronunciabili, sicché le fazioni si sono (sinora, in futuro si vedrà) schierate lungo i fronti contrapposti del “giustizialismo” e del “garantismo”.

Di fatto, il trionfo del giustizialismo coincide col trionfo dell’ordine giudiziario inteso come corpo separato che riempie, secondo un’eterna legge fisica, il vuoto lasciato dalla progressiva anchilosi del sistema politico. Altro che “uso politico della giustizia”. Può esserci nelle “guerre dei dossier” tra leader ma in questi casi recriminare per il ruolo della magistratura è un non senso. C’è stato quando dopo l’Autunno Caldo del 1969 la classe politica si è rifugiata sotto le toghe dei pretori affidando loro la gestione delle relazioni industriali in Italia. Questi ultimi non si sono fatti pregare.

Come, in generale, il potere giudiziario non si è mai fatto pregare quando gli sono capitati compiti da prima pagina, dal caso Montesi allo scandalo dei petroli dei primi anni Settanta a Tangentopoli e ben oltre. L’unica cosa certa è l’impossibilità, per chi non dispone di fonti di informazioni privilegiate, di capire chi usa chi.

Niente da dire, tutto questo è nella natura delle cose, basterebbe – ma so che è una pretesa smodata – che ci venisse risparmiata almeno una piccola parte dell’orgia di retorica che sostanzia il discorso pubblico su questi argomenti.

Mi rendo conto, infatti, che viviamo nella società dello spettacolo e noi del pubblico pagante non abbiamo niente da dire ma solo da applaudire. C’è però una questione di limiti, una questione eminentemente “estetica”. Quando ho visto, sul Corriere di domenica, una intera pagina dedicata alle letture di Matteo Messina Denaro, completa di fotografie di una sedicente libreria nel “covo” (chissà come se la saranno procurata…), mi sono chiesto se, oramai, non siamo entrati a vele spiegate nella società dell’avanspettacolo.

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