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Huawei

Perché Trump picchia su Huawei (ma l’Ue è attendista). Report Ispi

Il 5G appare vulnerabile “a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese”. Che un’azienda cinese come Huawei legata a doppio filo con un regime accusato a destra e a manca di avere pochi scrupoli possa disporre di un simile potere è qualcosa che, a Washington, risulta inaccettabile. L'approfondimento di Marco Orioles sulla base del dossier firmato dai ricercatori dell'Ispi, Alberto Belladonna e Alessandro Gili

“Perché Huawei”, si chiede l’Ispi, riassumendo la preoccupazione di mezzo mondo, “è al centro delle contese tra Cina e Stati Uniti?”. La risposta dell’istituto milanese ad un quesito che sta tenendo banco ovunque arriva sotto la forma di un dossier firmato dai ricercatori Alberto Belladonna e Alessandro Gili. Un lavoro che entra nel merito, sviscerandolo, del caso internazionale più scottante del momento, cuore di quella che il direttore di Aspenia Marta Dassù, in un’intervista a Start Magazine, ha definito la “guerra fredda tecnologica” tra la superpotenza a stelle e strisce e il suo rivale asiatico.

Sotto il titolo “Scontro Cina-USA: il dossier Huawei”, l’analisi di Belladonna e Gili parte dagli sviluppi più recenti, esaminando l’“offensiva in due mosse” contro Huawei lanciata dalla Casa Bianca tra il 15 e il 16 maggio. L’atto primo è costituito dall’ordine esecutivo firmato da Donald Trump con cui, evidenziano i due ricercatori, si “vieta alle imprese americane di acquistare, utilizzare o trattare qualsiasi prodotto o servizio della Information and Communications Technology (ICT) proveniente da un foreign adversary”.

Per quanto drastica (e, dunque, trumpiana) la misura – si osserva – sarebbe in realtà stata meditata anche dal predecessore di The Donald, Barack Obama. Il quale, non meno del tycoon, fu costretto a fare i conti – scrivono Belladonna e Gili – con le “crescenti preoccupazioni sui rischi per la sicurezza nazionale legati al controllo da parte di entità straniere ‘ostili’ di qualsiasi hardware, software o altro prodotto o servizio destinato principalmente al trattamento e gestione di informazioni e dati”.

Si inserisce su questo sfondo il secondo provvedimento preso, a tamburo battente, dall’amministrazione Trump e segnatamente dal Bureau of Industry and Security del Dipartimento del Commercio. Il quale, ricordano i ricercatori Ispi, “ha inserito Huawei e 68 sue affiliate nella Entity list, una specie di lista nera di compagnie estere con le quali società americane possono fare affari solo previa autorizzazione da parte” dello stesso Dipartimento.

È, questa, la misura che ha spinto Google e altre aziende Usa come Intel, Qualcomm, Xilinx e Broadcom a sospendere le proprie forniture tecnologiche a Huawei. Un fendente potenzialmente letale per il colosso di Shenzhen, su cui però il governo Usa ha innestato una parziale retromarcia, mettendo tutto in stand-by per novanta giorni.

Ma perché tanta furia e determinazione nei confronti di Huawei? Nel fare questa domanda, il dossier Ispi parte da lontano: dall’anno domini 1987 quando, nel pieno della stagione riformista di Deng Xiaoping, Ren Zhengfei fonda un’azienda che, nell’arco di una parabola trentennale, diventerà il leader mondiale nella produzione di apparecchiature per telecomunicazioni e, dopo il recente sorpasso nei confronti di Apple, il secondo produttore di smartphone dopo Samsung. Risultati straordinari che l’istituto milanese attribuisce ad un mix vincente di “ingenti investimenti nella ricerca” e“capacità di stabilire forti partnership trans-nazionali”.

La “componentistica fornita ai vettori internazionali di telecomunicazione”, viene ricordato, è l’area in cui Huawei è leader globale indiscusso. Anche la produzione e commercializzazione di devices è, come si accennava, settore di crescente rilievo per Huawei. Ma c’è un terzo ambito meno noto in cui il gigante cinese si è ritagliato un ruolo di primo piano: è la posa e gestione dei cavi sottomarini, attuata dal 2009 mediante Huawei Marine Network. Settore quanto mai delicato, sottolinea il dossier, essendo i cavi sottomarini “il canale attraverso cui transitano il 95% delle comunicazioni e dei dati transcontinentali”.

Ma il vero motivo per cui Huawei è diventata un player con cui tutti devono fare i conti, nonché la ragione cui si deve guardare per comprendere almeno in parte le mosse Usa, è un altro: Huawei, scrivono i ricercatori, è di fatto il “fornitore tecnologicamente più avanzato e più competitivo nel mercato 5G, essendo per il momento l’unico attore in grado di fornire una soluzione commercializzabile, completa di tutte le componenti necessarie” (e – aggiungiamo noi – a costi inferiori rispetto alla concorrenza).

Tale vantaggio competitivo deve però essere guardato in tandem con il sospetto, che negli Usa viene avanzato da molto tempo , che “i dispositivi dell’azienda cinese vengano usati per condurre attività di sorveglianza o spionaggio”. L’accusa, più precisamente, è che Huawei piazzi nelle reti delle “backdoors”, che altro non sono che strumenti “per aggirare i controlli di sicurezza e accedere a dati criptati”.

Già grave di per sé, la questione agli occhi degli Usa è resa ancor più allarmante da due leggi varate recentemente da Pechino, quella sulla cybersicurezza del 2016 e quella sull’intelligence dell’anno successivo. Due provvedimenti che, nota il dossier, “impongono a cittadini, organizzazioni ed imprese cinesi di fornire informazioni richieste dall’intelligence nazionale”.

Questi elementi fanno capire bene perché gli Usa abbiano deciso di reagire. Non solo e non tanto, dunque, perché lo sviluppo delle reti mobili di quinta generazione genererà a livello globale un giro d’affari eccezionale, stimato in ben 225 miliardi di euro di qui al 2025. Il punto, osservano i ricercatori, è che il 5G – oltre che potenziale preda dello spionaggio elettronico cinese –  appare vulnerabile “a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese”. Che un’azienda cinese legata a doppio filo con un regime accusato a destra e a manca di avere pochi scrupoli possa disporre di un simile potere è qualcosa che, a Washington, risulta inaccettabile.

Il discorso non sarebbe però completo senza accennare ad un’altra questione tutt’altro che marginale: quella della definizione degli standard di riferimento del 5G. Un processo che, rileva l’Ispi, porterà a decidere una volta per tutte “come le reti andranno costruite e come andranno assegnate le royalties alle varie aziende produttrici”. Tutto dipenderà, viene sottolineato, dalla decisione che sarà presa dall’International Telecommunication Union: una volta che quest’ultima avrà adottato come standard quello di una specifica azienda, questo “dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori”.

In questa partita complessa, da cui dipende la leadership tecnologica in un settore – quello del 5G – destinato a rivoluzionare la società in cui viviamo ma anche a porre rischi e dilemmi di grande portata, come si muovono gli altri attori internazionali che, schiacciati sotto il peso dello scontro tra superpotenza n. 1 e 2, subiscono pressioni di ogni tipo ?

Stretti tra i diktat dell’amministrazione Trump, e la disponibilità di un fornitore – Huawei – che ha apparentemente tutte le carte in regola per farsi assegnare le licenze 5G, i vari paesi si stanno muovendo, sottolinea il dossier, “in ordine sparso”. Per comodità, li possiamo suddividere in tre categorie.

C’è, anzitutto, un nucleo ristretto di Paesi che hanno obbedito alle ingiunzioni americane e messo al bando Huawei. Si distinguono, in questo gruppo, due alleati di ferro degli Usa come Giappone e Australia che oltretutto, notano i ricercatori, essendo “geograficamente vicini alla Cina (sono) forse per questo più interessati a schierarsi sin da subito con le posizioni americane”.

All’estremità opposta si collocano quei paesi “più propensi a considerare gli aspetti economici dell’opzione Huawei” e meno, invece, a farsi condizionare dalla priorità strategiche degli Usa. Per ovvi motivi, qui troviamo avversari o nemici dell’America come Russia e Iran. Ma ci sono, anche, Paesi come Filippine e Tailandia che hanno ottimi rapporti con la superpotenza a stelle e strisce.

Assai più interessante è la terza compagine, formata dai Paesi che nutrono “un atteggiamento di cautela nel valutare gli effetti economici, politici e di sicurezza nazionale legati alla scelta di ammettere Huawei nel proprio mercato 5G”. È qui che si colloca l’Europa, dove in realtà si possono riconoscere due linee diverse: quella di Spagna e Portogallo, che “sembrano procedere verso l’autorizzazione di componentistica Huawei nelle loro reti nazionali”, e quella dei Big come Francia, Germania, Regno Unito e Italia che “non hanno ancora optato per una scelta definitiva, sebbene sembrano orientati verso un sì condizionato”.

Molto dipenderà, a questo punto, dagli orientamenti dell’Unione Europea. La quale ha adottato per il momento quello che l’Ispi definisce “un approccio attendista”. L’Ue ha emanato raccomandazioni non vincolanti agli Stati membri invitandoli a realizzare valutazioni nazionali di rischio, propedeutiche a loro volta alla stesura di un’analisi europea complessiva. Sulle analisi nazionali incombe ormai la deadline fissata per il mese di giugno. A quel punto si metterà in moto la macchina della valutazione di rischio coordinata, che dovrebbe concludersi a ottobre.

Decisivi, in questo processo, saranno i rilievi dell’Agenzia europea per la cybersicurezza (ENISA), chiamata – in ossequio all’EU Cybersecurity Certification Framework – ad emettere una certificazione unica a livello di Unione sulla sicurezza dei dispositivi connessi a internet . L’ENISA, in pratica, dovrà tagliare la testa al toro. Se dalla sua analisi dovesse infatti risultare che un determinato dispositivo non offrisse sufficienti condizioni di sicurezza, quel prodotto sarebbe escluso dal territorio europeo.

Per Huawei, dunque, la partita – almeno in Europa – è ancora aperta. Del resto, come il dossier Ispi non manca di evidenziare, il braccio di ferro tra Usa e Cina, di cui Huawei rischia di essere la vittima più eccellente, potrebbe sbloccarsi improvvisamente con un accordo. A ventilarlo è stato lo stesso Trump quando, poco dopo aver alzato i dazi contro l’export del Dragone, ha fatto capire che si parlerà a tu per tu col collega cinese Xi Jinping a margine del G20 di Osaka del mese prossimo.

A quel punto, è la conclusione dell’Ispi, “si riuscirà a comprendere in maniera forse più chiara la piega che potrà prendere lo scontro tra Pechino e Washington per la ridefinizione delle regole del gioco del nuovo ordine internazionale”.

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