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Relazioni Internazionali

Perché non sarà più solo l’economia la bussola delle relazioni internazionali

La globalizzazione oggi non solo langue ma ha originato contro spinte volte a ridisegnare l’intera mappatura delle relazioni internazionali. Relazioni in cui il tema della sicurezza ha ormai conquistato una inedita centralità. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin sul possibile uso di armi nucleari più che una manifestazione di forza, rilevano incertezze e debolezza. Per alcuni versi somigliano al ruggito del topo, quando minaccia l’Occidente vantando una superiorità tecnologica, seppure limitata ai soli armamenti, che è tutta da dimostrare. Fosse così “l’operazione militare speciale” si sarebbe conclusa nei tempi previsti, invece di trasformarsi in una guerra di logoramento, che somiglia sempre più a quel pantano afgano in cui la vecchia Unione Sovietica perse la sua verginità.

Le guerre moderne si vincono non tanto militarizzando l’economia, come sta avvenendo in Russia. Ma avendo a disposizione tutto il potenziale industriale che ogni Paese belligerante può mettere in campo. Sono queste retrovie che assicurano i necessari rifornimenti ai reparti combattenti. Che, a loro volta, hanno bisogno di essere motivati. E non certo governati con la logica della decimazione o della pura e semplice repressione. Si dice che, in Ucraina, l’esercito occupante abbia un potenziale di fuoco dieci volte superiore a quello dei patrioti che resistono. Grazie alle forniture di Paesi come l’Iran o la Corea del Nord. Ebbene nonostante questo squilibrio, la guerra ristagna. Segno evidente di una diversa attitudine delle truppe combattenti. Con i russi sempre più costretti a prendersela con i civili, nella speranza di seminare il terrore.

Quindi nessun trionfalismo, per favore. Serve solo a rassicurare il fronte interno, che assiste sempre più stupito all’iperbole del regime. Non fosse così, la folla che ha accompagnato le esequie di Alexei Navalny, rischiando di persona, non si sarebbe appalesata. Il che non significa, ovviamente, la fine imminente del dispotismo dell’autocrate. Putin sarà ancora incoronato in queste nuove elezioni farsa, caratterizzate dalla totale assenza di una qualsiasi alternativa. Ma le arterie che portano sangue al cuore del regime appaiono sempre più compromesse. Ci vorrà solo il tempo necessario, ma non sarà il neoimperialismo del Cremlino a vincere la partita.

Wishful thinking? Come dicono gli inglesi. Profezie che si spera possano autoverificarsi? È possibile. Tuttavia la realtà internazionale non sembra essere così favorevole ai nuovi “imperi del male”. Il loro indubbio rafforzamento, ma con l’eccezione proprio della Russia costretta a rinverdire i miti del socialismo reale, è stato soprattutto conseguenza del processo di globalizzazione. Che ha canalizzato enormi flussi di capitale e tecnologia, di marca quasi esclusivamente occidentale, verso le aree più povere del Pianeta. Con il fine di lucrare sui più bassi livelli salariali. Si spiega così il successo della Cina, prima e delle aree contigue poi. A partire dal Vietnam ed il resto della penisola indocinese.

Ma il Covid prima, quindi l’invasione dell’Ucraina, senza contare gli attacchi Houthi contro le navi che transitano per il Mar Rosso, ha innalzato il livello di rischio ben oltre la soglia della normale convenienza. Rallentando, in modo significativo, il vento della globalizzazione. Che oggi non solo langue ma ha originato contro spinte volte a ridisegnare l’intera mappatura delle relazioni internazionali. Relazioni in cui il tema della sicurezza ha ormai conquistato una sua centralità, in grado di incidere profondamente sui preesistenti rapporti commerciali e finanziari. Basti vedere, in proposito, la decisione americana di bandire dal proprio mercato la piattaforma Tik Tok, il social network Made in Cina che è troppo dipendente dal Governo di Pechino.

Sta di fatto che lo scorso anno, il commercio mondiale ha subito una contrazione di quasi il 5 per cento. Ne soffriranno un po’ tutti. Ma soprattutto i Paesi di quel Sud globale che Cina e Russia vorrebbero conquistare per usarli come teste d’ariete contro l’Occidente. Il quale, a sua volta, non potrà che reagire. A Mosca si spera molto nella vittoria di Donald Trump. La sua “America first” – questo il retropensiero – darà filo da torcere agli europei, accentuando le fratture all’interno dell’Alleanza atlantica. Staremo a vedere. In una situazione di relativa tranquillità ci potrebbe anche stare, ma di fronte alla prospettiva del “dominio delle campagne sulle città” – che fu elemento centrale della strategia di Mao Tse Tung – tutto è diventato più difficile e meno decifrabile.

Comunque sia l’Europa si trova ormai di fronte a scelte non più rinviabili. Lungimiranza avrebbe voluto una maggiore attenzione ai problemi della sua sicurezza. Soprattutto militare. Se Germania da un lato e Francia dall’altro non avessero coltivato, in modo eccessivo, il proprio immediato tornaconto. Probabilmente le truppe di Sua Maestà britannica sarebbero ancora al servizio dell’UE. Ma ormai quell’asse (“franco-tedesco”), che fu il baricentro della politica europea, non esiste più. Occorrerà, pertanto, recuperare rapidamente, Trump o non Trump, il tempo perduto. Se sarà così, Putin avrà compiuto un miracolo. Avrà spinto i 27 Paesi dell’Unione, così gelosi della propria autonomia, a sacrificare qualcosa, pur di difendere la propria libertà. E scrivere, su queste basi, un nuovo capitolo della loro storia.

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