skip to Main Content

Giorgetti

Perché non è finita la guerra fra Conte e Renzi

Che cosa succederà fra Conte e Renzi dopo la fiducia al Senato con l'astensione di Italia Viva

E’ proprio vero, anche in politica, che chi di spada ferisce di spada perisce, per fortuna solo metaforicamente nel nostro caso. Che è quello della crisi non crisi di governo che Giuseppe Conte, pur parlandone alle Camere come di una cosa “aperta” dopo l’uscita delle due ministre renziane e la conferenza stampa esplicativa dello stesso Renzi, non ha voluto per niente aprire con le dimissioni. Pertanto il presidente della Repubblica ha dovuto starsene alla finestra, in paziente attesa che il presidente del Consiglio seguisse il percorso preferito alle tradizionali consultazioni al Quirinale, eventuale rinvio alle Camere o conferimento dell’incarico per risolverla.

Nel parlare al capo dello Stato sulle conclusioni del doppio dibattito parlamentare promosso autonomamente e soprattutto sul voto di fiducia al Senato, Conte deve avere avvertito un minimo di imbarazzo, non essendosi potuto liberare davvero di Renzi. Che pure era il suo obiettivo sfuggendo all’apertura anche formale della crisi, sicuro di raccogliere fuori dai confini originari del suo secondo governo tanti voti da mettere definitivamente fuori gioco l’ex sindaco di Firenze, ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pd e ora leader della piccola ma non travolta formazione parlamentare di Italia viva. Cui personalmente attribuisco la colpa, quanto meno, di avere restituito alle cronache politiche una sigla -Iv- che era scomparsa con la fine non proprio gloriosa dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.

La maggioranza relativa raccolta da Conte al Senato con 156 voti, comprensivi di due transfughi dell’ultima ora da Forza Italia e di tre senatori a vita, in quanto tali non elettivi, ha potuto realizzarsi grazie all’opposizione anch’essa relativa di Renzi. Se i sedici renziani avessero votato contro aggiungendosi ai 140 no del centrodestra vi sarebbe stato un pareggio che avrebbe costretto il presidente del Consiglio a dimettersi. Non ha avuto quindi torto Renzi a vantarsi poi del ruolo “determinante” conservato in un percorso pur voluto da Conte -ripeto- per impedirlo.

I sostenitori del presidente del Consiglio sono ovviamente fiduciosi di raccogliere nelle prossime settimane o mesi, sfruttando anche l’occasione del necessario rimaneggiamento della compagine ministeriale per coprire i due posti di ministro e quello di sottosegretario lasciati dai renziani, nuove risposte all’appello contiano ai “volenterosi”. Altrettanto fiduciosa è l’attesa dei dirigenti del Pd di strappare a Renzi più dei soli due deputati appena tornati al Nazareno. Ma proprio in questa situazione di necessitata ricerca di nuove adesioni la maggioranza emersa dal passaggio parlamentare voluto da Conte è di difficile, se non impossibile catalogazione o definizione.

E’ sicuramente una maggioranza debole nei numeri al Senato, dove peraltro non esiste per niente in alcune commissioni, proiettata sicuramente a destra nonostante gli sforzi di Massimo D’Alema, fra gli altri, di sentire e classificare a sinistra i presunti cambiamenti intervenuti nel quadro politico con la rottura consumatasi tra Conte, “il più popolare” fra gli uomini in campo, e Renzi, il “meno popolare” o “più impopolare”.

Di questa curiosa maggioranza- appesa anche all’efficacia della terapia prescritta al telefono o in altro modo da quello strano “medico della crisi” che si è autodefinito Mastella, nella speranza che il correttore automatico non me lo trasformi in Mattarella, com’è accaduto purtroppo in un passaggio del precedente articolo sul fantasioso sindaco di Benevento- colpisce la indiscutibile debolezza considerando la gravità dei problemi ancora aperti nel Paese: oltre alla crisi non crisi di governo, la perdurante pandemia, le incognite della campagna di vaccinazione, una sostanziale recessione economica, l’aumento degli squilibri sociali, le perduranti difficoltà nei rapporti con l’Unione Europea. Dove un commissario pur ben disposto verso l’Italia come l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto già sapere che il piano di utilizzo dei fondi continentali della ripresa non va bene neppure con le modifiche migliorative apportate al testo originario contestato da Renzi.

Torniamo così a lui, il fantasma da cui sembra ossessionato Conte come se fosse un morto. E invece Renzi è vivo e vegeto. E penso che il capo del governo non riuscirà facilmente a liberarsene davvero, come anche il Pd, di cui l’ex segretario rimane una spina nel fianco, capace -anche senza trarne un beneficio diretto, visti i sondaggi e i risultati delle elezioni amministrative cui ha recentemente partecipato- di farlo apparire troppo condizionato dai grillini. Che pure avrebbero ben poco di cui vantarsi a causa della crisi identitaria che ha trasformato il loro movimento in un quasi partito, unito sì contro Renzi ma diviso in un numero ornai indefinito di correnti o “anime”, come preferisce chiamarle Conte. Il quale deve loro l’approdo insperato a Palazzo Chigi nel 2018 e la conferma l’anno dopo, pur passando da una maggioranza gialloverde ad una maggioranza giallorossa.

Back To Top