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Navalny

Perché Navalny fa paura anche da morto

Il martirio di Alexei Navalny insegna che nessun regime prospera per sempre nel silenzio del proprio popolo. Il taccuino di Guiglia.

Tutte le circostanze della morte di Alexei Navalny portano a Putin.

Lo denuncia Yulia Navalnaya, la vedova, col cambio del testimone: ora sarà lei a continuare la battaglia del marito contro il regime.

“Lotterò per una Russia libera, pacifica e felice”, ha dichiarato, incolpando lo Zar dell’omicidio di Alexei con il Novichok, potente veleno che uccide ed è difficile da individuare. Del resto, fu proprio con quel veleno che il 20 agosto 2020 avevano già tentato di farlo fuori. Ma lui, sopravvissuto ai suoi carnefici e alle persecuzioni subite per dieci anni, scelse di tornare in Patria, anziché restare a curarsi, protetto, in Europa. Preferì andare eroicamente incontro a un destino segnato. Ma non a rinunciare alla sua dignità e all’idea di libertà che propugnava per l’amata Russia.

Un esempio di romantica rettitudine che non si concilia, e forse neppure si concepisce, nella cinica viltà delle classi politiche dell’Occidente che, se non ci fosse stata l’aggressione all’Ucraina, sarebbero rimaste alle dipendenze di Mosca per il gas e l’energia.

Ma Alexei fa paura anche da morto. Ai familiari e persino al suo avvocato è stato impedito di vederlo e di piangerlo. Dovranno attendere due settimane, con ogni evidenza il tempo medico e politico necessario per consentire al regime di costruire la sua bugia sul caso, evitando l’insidia di controesami che, specie se fatti nell’immediato, finirebbero per creare imbarazzo e suscitare nuove proteste contro Putin.

Ma già protestano in tanti lontano dalla Russia. Anche a Roma tutto l’arco politico ha voluto manifestare il suo sdegno vicino all’ambasciata moscovita. Per una volta l’unità tra maggioranza e opposizione, almeno di facciata, ha prevalso sulle divisioni mostrate sia sulla figura e il ruolo internazionale di Putin, sia sulla guerra da lui scatenata contro Kiev.

“Vivere senza menzogna”, fu il memorabile appello del 1974 scritto da Alexander Solgenitsin, premio Nobel per la letteratura e impavido testimone e accusatore del Gulag e del regime comunista di cui anche lui è stato prigioniero politico. La Russia di Putin ricorda l’Urss che Solgenitsin fece conoscere al mondo libero coi suoi romanzi profondi e documentati, nel solco della tradizione della grande letteratura russa.

Oggi come allora siamo ancora alle prese con la “menzogna”, cioè l’occultamento della verità da parte di un sistema che solo perpetuando l’ideologismo della bugia a ogni livello -dalla morte di Navalny all’invasione dell’Ucraina- può sperare di annientare le resistenze internazionali e interne. Sia pure, queste ultime, intimidite, messe a tacere, avvelenate, infangate.

Ma il martirio di Alexei Navalny insegna che nessun regime prospera per sempre nel silenzio del proprio popolo. Quando si sopprime una voce libera, e in quel modo brutale, è impossibile nascondere una così grande menzogna. La parola oggi passa a Yulia Navalnaya.

Pubblicato su Gazzetta di Mantova e Bresciaoggi
www.federicoguiglia.com

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