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Javier Milei Argentina

Perché Milei in Argentina non va sottovalutato

Promesse, messaggi e prime mosse del nuovo presidente dell'Argentina, Javier Milei. Il taccuino di Guiglia.

Per capire chi sono gli argentini, resta ancora oggi insuperabile la definizione che ne diede un loro grande connazionale, il poeta e scrittore Jorge L. Borges, a cui è stato negato il Nobel per la letteratura solo perché non belava nel campo intellettuale progressista. “Gli argentini -diceva Borges- sono italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi”.

Javier Milei, il nuovo e appena eletto presidente della Repubblica, è la sintesi popolare e ora istituzionale di questo pazzo miscuglio.

“El loco”, infatti, lo chiamano, “il matto”, modo di dire che nel Río de la Plata è usato spesso (“el loco Bielsa”, hanno soprannominato anche un fantasioso allenatore argentino di calcio). Da quelle parti “loco” suona con divertito compiacimento: vi si riconosce un che di geniale, più che la follia implicita nell’espressione.

Milei, in effetti, è “un loco” ad honorem. Dotato di un’intelligenza notevole (come Maradona nel calcio, Piazzolla nel tango o Papa Francesco nella religione), Milei ha fatto una campagna elettorale da ridere e da piangere, minacciando con una motosega di tagliare tutti i privilegi della casta: Buenos Aires è diventata la capitale dei favoritismi, della clientela, della corruzione politica. E poi ha annunciato, da economista qual è, di voler chiudere la Banca centrale e adottare il dollaro al posto del peso. L’intento è di liquidare il peronismo demagogico di chi ha governato il Paese negli ultimi sedici anni (prima Néstor Kirchner, poi la vedova Cristina; autentici disastri per l’Argentina) per riportare la Nazione al posto che aveva e che le spetta: il faro dell’America latina.

El loco ha vinto col populismo. Ma appena s’è insediato alla Casa Rosada, magnifica residenza che porta la firma di architetti italiani, ha scandito la verità in piazza e in diretta tv: “No hay plata”, non ci sono soldi. Prendendo le prime durissime misure di contenimento economico e finanziario per ridare a Buenos Aires la credibilità internazionale e monetaria compromessa dal drammatico periodo kirchneriano. E per mettere il primo mattone della risalita in un Paese un tempo ricco, ma che oggi viaggia col 140% di inflazione e col 40% della popolazione in stato di povertà. Insomma, per non cantar più la struggente “don’t cry for me Argentina”, non piangere per me, Argentina, niente miracoli: el loco, al contrario, annuncia sudore, lacrime e sangue. Sacrifici per risorgere.

Naturalmente, il giudizio sulla nuova strategia di Javier Milei (tagliare l’ipertrofico e clientelare settore pubblico, a partire dai ministeri, come segnale economico e psicologico per incentivare l’intraprendenza privata e la produzione, ossia la crescita), dovrà essere dato alla fine del mandato, non adesso. Così come prestare attenzione alla linea dura promessa sulla sicurezza, e che non dovrà mai neppure scalfire il sacro diritto al dissenso.

Ma nell’attesa del “che succederà”, un paio di lezioni si possono già trarre.

1)   Col populismo magari si vincono le elezioni, ma non si governa.

Le prime mosse dell’uomo della motosega e dell’estremismo verbale (ha insultato più o meno tutti, compreso il suo connazionale e nostro Papa, che però l’ha già perdonato e presto potrebbe volare a Buenos Aires), vanno nella direzione del rigore e del realismo. Tant’è che il Fondo monetario internazionale plaude all’Argentina ritrovata.

Quel “loco” e anarchico ha pensato bene di allearsi coi conservatori e liberali dell’ex presidente Mauricio Macri, che ha rappresentato una breve parentesi del peronismo dissipatore e sinistro. Al punto da aver ripescato dal governo-Macri il ministro delle Finanze e poi alla guida della Banca centrale, Luis Caputo, nominandolo ministro dell’Economia. “Il Messi delle Finanze”, come l’hanno ribattezzato.

2)   Nell’era digitale la demonizzazione dell’avversario si rivela sempre un boomerang. Ciò che i politici di sinistra e molta stampa internazionale e superficiale hanno scritto di Milei, descrivendolo come un mostro di estrema destra, una sorta di Donald Trump argentino e, nel migliore dei casi, un matto vero, s’è mostrato inconsistente rispetto alla consapevole volontà del popolo argentino di liberarsi dai guasti del peronismo.

In realtà, di Milei il conformismo politico e informativo non ha digerito il dichiarato anticomunismo. Come se fosse un delitto di lesa maestà dir male di Nicolás Maduro, il mediocre, ma non meno feroce Fidel Castro del Venezuela. O svincolarsi dall’insidiosa strategia economica della Cina perseguita anche in America latina. Oppure schierarsi con l’Ucraina aggredita, anziché con Putin l’aggressore. Oppure, ancora, dire che l’Argentina sta con l’Occidente e con l’Europa, con gli Stati Uniti e con Israele, come Milei ha urlato, ribaltando l’inconcepibile politica kirchneriana.

Ma nell’era social dove tutto si viene a sapere, travisare e censurare per puro ideologismo le posizioni di un presidente anticomunista, cioè di una persona che inneggia alla libertà, non spaventa più nessuno. Gli argentini sapevano bene che cosa Milei stesse in realtà solleticando e sollecitando col suo comportamento da elefante in cristalleria: il cambiamento radicale rispetto al governo precedente che alla Russia e alla Cina, al Brasile di Lula e alla filosofia per i sudamericani assurda del “non allineamento” fino a ieri guardava.

Vedremo se Javier Milei sarà all’altezza dell’immane compito che l’attende: riportare la disastrata e tormentata Argentina tra i Paesi di democrazia liberale ed economia aperta, cioè non dirigista né statalista, in un mondo orribilmente minacciato da guerre e terrorismi e mutilato da regimi teocratici, povere donne d’Iran.

Nella speranza che “la locura”, la “follia” esplosa a Buenos Aires, aiuti gli italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi a ritrovare almeno un po’ della ragione così a lungo perduta.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige

www.federicoguiglia.com

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