Sarà “filosofia”, come Giorgia Meloni l’ha definita una volta per sottrarsi a Bruxelles alla domanda di un giornalista, ma l’immagine di Mario Draghi in corsa proprio per Bruxelles, alla presidenza della Commissione o del Consiglio dell’Unione, è tornata prepotente nello scenario del dopo-elezioni del 9 giugno con quell’”approccio europeo” riconosciuto da Emmanuel Macron alla pur sovranista premier italiana. Senza il cui consenso, quanto meno, potrebbe diventare irrealizzabile il progetto, il sogno -chiamatelo come volete- del presidente francese di portare proprio il predecessore della Meloni, sorridente sotto i baffi che non ha, al vertice dell’Unione.
E’ significativo, a dir poco, che il riconoscimento dell’”approccio europeo” -ripeto- alla Meloni sia arrivato nel contesto di una sortita del presidente francese sulla possibilità di un intervento di truppe occidentali in Ucraina per evitarne il crollo sotto l’offensiva spietata dei russi, sospettati peraltro di avere già fatto ricorso ad armi chimiche contro il paese limitrofo violando altri trattati internazionali. Sarebbe per l’Europa, anche se con l’intervento delle sole truppe di Francia, cui certo non si aggiungerebbero quelle italiane secondo un annuncio del ministro della Difesa Guido Crosetto, un passo ulteriore verso il modello del continente forte immaginato da Draghi. Il quale con quella “riforma radicale” dell’Unione prospettata di recente si è praticamente offerto a gestirla.
Succedutagli a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa in continuità di linea sulla politica estera, da lei condivisa nei mesi precedenti anche stando formalmente all’opposizione del governo da lui guidato, la Meloni è in difficoltà non solo “filosofiche”, o di metodo, parlandone o pensandone prima dei risultati elettorali del 9 giugno in una postazione di vertice nell’Unione.
Ci sono motivi molto meno filosofici e assai più concreti e imbarazzanti che frenano la premier. Innanzitutto -credo- ci sono i rapporti notoriamente eccellenti con la presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, candidata alla conferma dal Partito Popolare di appartenenza, sia pure senza un consenso unanime di quella formazione politica.
Altre resistenze derivano paradossalmente dalla nazionalità dell’interessato, che potrebbe penalizzare ambizioni del centrodestra italiano, cui egli non appartiene perché apartitico. Ambizioni anche di altissimo livello che potrebbe già avere, per quanto negate, o potrebbe maturare un altro appartenente al Partito Popolare, addirittura uno dei vice presidenti, come Antonio Tajani: il successore di Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia.
Tajani peraltro è già stato presidente del Parlamento di Strasburgo, conservando relazioni personali importanti sopravvissute a momenti di difficoltà vissuti quando Berlusconi cantò fuori comprendendo Putin nello scontro con l’Ucraina. Ed è tuttora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri nel governo Meloni.