Cosa c’è che di fondo non va nel Bel Paese? Proviamo a guardare per un solo momento la nostra storia. All’inizio del secondo millennio la penisola italiana era popolata da una moltitudine di genti differenti per origine, cultura, lingua. Persone che si dilaniavano succubi di conflitti di supremazia politica e religiosa consumandosi in scontri interni e aprendo agli imperatori europei il compimento a loro piacimento di incursioni e invasioni. Non ci attardiamo oltre e senza aver alcuna intenzione di rivisitare quanto appreso sui banchi di scuola, riscontriamo non poche similitudini tra quel periodo e l’attuale.
Una stratificazione tra nord e sud fomentata da partiti qualunquisti e antistato che per anni hanno gridato ai quattro venti il separatismo ad un mai sopito individualismo imprenditoriale con una insopportabile sottomissione al servizio degli stranieri che continua ad essere la dominante dell’intera penisola. Se oggi poi le invasioni sono però di altra natura, fatta salva quella a cui stiamo assistendo impotenti a pochi passi da noi, in centro Europa, attualmente la penetrazione si articola in modo diverso e siamo convinti che nessuna legge protezionistica o autarchica possa arginare l’ingordigia di chi osserva un territorio che rappresenta appena lo 0,5% del pianeta ma che godendo di condizioni climatiche particolarmente favorevoli -essenziale elemento di distinzione del territorio- vive il privilegio di essere primo tra i primi per biodiversità e per ricettività ambientale. Noioso entrare in altri dettagli, ma va pur ricordato che possedere il 70% del patrimonio artistico mondiale ci rende un’area particolarmente attrattiva sia per i visitatori che per gli incursori.
Insistiamo però su un punto: la estrema fragilità politica e un clima di perenne conflittualità sociale hanno da sempre reso il Paese estremamente esposto alla conquista esterna. Che sia voracità straniera o insipienza autoctona sarebbe poi da analizzare. Fatto sta che negli ultimi decenni in Italia sono stati trascurati, fino al quasi totale annientamento, alcuni dei migliori montanti produttivi nazionali: aeronautica, chimica, elettronica, informatica. Luciano Gallino, in un suo breve saggio dà la colpa di questa disfatta a “politici e manager senza visione” che “hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale”.
A causare il fiato corto alle industrie italiane nello scenario mondiale si allineano molteplici fattori: un mercato interno con ristrette capacità di assorbire la massa critica è stato da sempre uno dei motivi più battuti. Ma c’è poi la eccessiva frammentazione delle imprese che generano le maggiori difficoltà di crescita, con una tradizione fin dal Medio Evo ad una caratteristica di artigianalità e a un nanismo, creativo ma sempre conflittuale, difficilmente aggregante.
Un terzo elemento, non meno intenso è una politica industriale poco attenta alla programmazione rispetto alle risorse reali del territorio e alle sue esigenze peculiari, più attenta all’interesse del collegio elettorale piuttosto che alla salute dell’intera comunità, con una azione estera spesso suddita delle sconfitte militari del passato e raramente riscattata con uno sguardo ottimista verso il futuro. Ma un’altra contestazione che si generalizza oltre i confini è la perenne instabilità della governance centrale: dal primo governo della Repubblica guidato da Alcide De Gasperi nel 1946 dovremmo essere a 68 capi di governo succedutisi fino ad oggi. È effettivamente un po’ troppo in un lasso di tempo storicamente così breve!
È un percorso senza speranza? Non lo crediamo. Non, almeno, nella misura di una presa di coscienza nazionale a cui a un dirigismo di facciata dovrebbe sopperire una volontà sostanziale di miglioramento. E questo può avvenire solo attraverso un radicale processo di miglioramento qualitativo dell’intera architettura statale.
Sono molte le leve su cui agire e ridurre a una linearizzazione delle difficoltà riporterebbe l’intero problema a un monte di soluzioni populiste e non praticabili. Per cui ci limitiamo ad una sola angolazione per evitare di slabbrare quanto affermato.
Riteniamo che ci sono alcuni elementi che meriterebbero una seria attenzione nell’analisi dei dati: il primo è sicuramente quello di sostanziare la preparazione scolastica adeguandola alle esigenze nazionali. Le università italiane rappresentano ancora un’eccellenza e la pressante formazione teorica nelle facoltà tecniche e scientifiche non è un ostacolo all’ingresso nel mondo del lavoro. Lo vediamo dai numerosi giovani che dopo aver conseguito un titolo accademico in Italia si consegnano rapidamente ad aziende all’estero.
Allora ci sentiamo in obbligo nel porgerci altre domande. Prima di tutto è il perché della “fuga di cervelli”. Abbiamo mai pensato che è l’assenza di industrie innovative in Italia a spingere fuori i nostri migliori giovani? Si è mai preso in considerazione che un neolaureato non si rassegna a una politica che mortifica la meritocrazia e affossa le qualità personali? Sarebbe opportuno che il governo si soffermi su questi aspetti di casta che vivono tante aziende italiane o anche straniere con sedi in Italia e che la madre delle riforme abbia casa principalmente in queste pieghe.
Poi ci sono i vincoli burocratici: la pressione fiscale incandescente e la mancanza di servizi che certo non aiutano l’Italia a crescere. Ma se da tutti è auspicata una riduzione sostanziale delle tasse, nessun politico si sofferma a spiegare dove attingere alle risorse per non mandare in bancarotta lo Stato prima della caduta del governo che si presiede. Quanto alla semplificazione della burocrazia, è un altro requisito che auspichiamo tutti ma sono in pochi a domandarsi che fine farebbe il lavoro di tutte quelle persone che affollano la macchina statale dopo aver trasformato la pubblica amministrazione in uno stipendificio così dannoso all’intero apparato nazionale.
Come dicevamo, non abbiamo la pretesa di scoprire nessuna “acqua calda”. Ma siamo convinti che se non si migliora la fiducia del cittadino verso lo Stato con esempi di concretezza e atteggiamenti di vera costruttività, l’Italia precipiterà in una posizione di stallo da cui sarà molto difficile rialzarsi.