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Turchia Israele

Perché l’economia condanna la Turchia di Erdogan

Le sfide economiche e politiche per Erdogan. Conversazione con Valeria Talbot, Head Osservatorio MENA dell’Ispi, in vista delle elezioni in Turchia del 14 maggio

 

 

Le elezioni presidenziali in Turchia del prossimo 14 maggio si giocheranno sul filo di lana. È testa a testa infatti nei sondaggi tra Recep Tayyip Erdogan e lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Partito repubblicano del popolo e candidato del tavolo dei sei principali partiti di opposizione. Un’elezione che secondo Valeria Talbot, Head Osservatorio MENA dell’Ispi, sarà decisa soprattutto dai temi economici.

Chi è Kemal Kılıçdaroğlu e perché secondo i sondaggi potrebbe prevalere su Erdogan?

In questo momento i sondaggi li danno testa a testa, anzi secondo i più recenti Kılıçdaroğlu supererebbe di qualche punto percentuale Erdogan. Questo risultato è legato alla sua figura di leader dell’opposizione, laico e moderato, anche se bisogna dire che non è una figura carismatica come quella di Erdogan. Tuttavia Kılıçdaroğlu rimane la persona scelta al tavolo dei sei, che riunisce i sei principali partiti di opposizione tra cui quello dello stesso Kılıçdaroğlu, cioè il Partito repubblicano del popolo, che è il maggiore e di tradizione kemalista.

È vero che saranno i temi economici a dominare in questa tornata elettorale?

L’economia è sicuramente il fattore più importante perché, anche stando ai sondaggi, si vede che per la maggior parte dei turchi il problema principale oggi è l’economia. A suo tempo l’economia è stata il cavallo di battaglia di Erdogan, fonte dei suoi successi; negli ultimi anni, tuttavia, a causa della crisi economica, dell’elevata inflazione e della forte erosione del potere d’acquisto la situazione economica è peggiorata e ora pesa sulle scelte dell’elettorato e sul consenso nei confronti della leadership turca.

Tra l’altro è già successo, nel 2019.

Sì, nelle elezioni amministrative del 2019, quelle successive alla crisi finanziaria e valutaria del 2018, il partito di Erdogan, AKP, perse le due più importanti città della Turchia, cioè Istanbul e Ankara, e in quel contesto la situazione economica aveva avuto un forte peso nelle reazioni dell’elettorato.

Come si spiega che Erdogan goda ancora di ampio consenso nonostante le mille spallate che ha dato al sistema democratico e dei diritti umani nonché ai media indipendenti?

Perché comunque negli anni Erdogan è riuscito a creare un sistema molto radicato, un sistema clientelare. Non dimentichiamo poi che lui ha uno zoccolo duro nell’elettorato conservatore dell’Anatolia. C’è poi anche un altro motivo, ossia il fatto che l’uomo forte al comando rappresenta stabilità e continuità.

Quindi possiamo dire alla fine che quella del 14 maggio sarà una scelta tra un potere monocratico e una proposta politica caratterizzata in senso pluralista. È così?

La scelta sarà tra un sistema accentrato sulla figura di Erdogan e un cambiamento determinato dalla comune volontà delle opposizioni di tornare a un sistema di tipo parlamentare. Sappiamo infatti che dal 2018 la Turchia è diventata una repubblica presidenziale con un forte accentramento dei poteri nelle mani della figura del Presidente. Quindi, in caso di vittoria delle opposizioni, dovremmo attenderci un ritorno al parlamentarismo, un ritorno a un processo democratico, ad un equilibrio i tra i vari poteri dello Stato, con particolare riguardo al rispetto dello stato di diritto che negli ultimi anni ha subito una forte erosione.

A proposito di pluralismo, molti osservano che i curdi in queste elezioni saranno l’ago della bilancia? È vero?

Presumibilmente sì. I curdi non hanno presentato una loro candidatura presidenziale e quindi questa scelta ha il significato di sostegno implicito alla candidatura di Kılıçdaroğlu, una figura che riesce ad attrarre l’elettorato curdo. Quindi il voto curdo sarà importante come lo è stato a Istanbul nel 2019.

Erdogan ha guadagnato un grande prestigio internazionale con la sua opera di mediazione tra Russia e Ucraina, concretizzatasi con il famoso accordo sul grano. Questo protagonismo della Turchia, che tra l’altro ha riallacciato i rapporti con molti dei Paesi vicini con cui aveva avuto delle relazioni problematiche, questo attivismo in politica estera insomma è un fattore che conterà nelle scelte degli elettori?

L’attivismo in politica estera ha dei risvolti anche in ambito interno. L’accordo sul grano tra Russia e Ucraina è stato molto celebrato nel Paese come un successo del Presidente e quindi sicuramente sul piano interno ha avuto ripercussioni positive così come ripercussioni positive ha avuto la politica di normalizzazione portata avanti nell’ultimo anno e mezzo nei confronti dei rivali e competitor medioorientali. Parliamo del riavvicinamento e del riallacciamento delle relazioni diplomatiche con le ricche monarchie del Golfo, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, e la riapertura di dialogo con Israele e, proprio negli ultimi mesi, con l’Egitto.

Un vero e propria inversione di tendenza, si potrebbe dire.

Sì, in effetti oggi la Turchia di Erdogan è un Paese che in politica estera ha ricalibrato la sua postura aggressiva e muscolare per assumere un atteggiamento più distensivo e dialogante presentandosi come fattore di stabilizzazione per la regione medioorientale. Questa evoluzione è dovuta soprattutto a interessi di natura economica ….

I soldi di Riad hanno fatto comodo.

Quelli di Riad, così come quelli degli Emirati Arabi Uniti.

La situazione al confine sud rimane molto calda e non è passato molto tempo da quando Erdogan minacciava un nuovo intervento armato in Siria. Qual è il quadro più recente?

In questo momento non c’è nessun fronte nuovo. Ricordiamo che la Turchia per mesi aveva continuato a bombardare, finché poi non è sopraggiunto il terremoto che ha interrotto tutte le operazioni militari. Tuttavia nel Nord della Siria resta una presenza turca e occasionalmente Ankara conduce dei raid contro le milizie curde affiliate al PKK, perché per la Turchia si tratta di una questione di sicurezza nazionale, di sicurezza dei confini e del proprio territorio contro quella che viene percepita come una grossa minaccia.

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