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Perché le proteste sindacali contro il Green pass nascondono altri motivi

L’analisi di Walter Galbusera, già leader sindacale nella Uil e ora presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

 

Sul fatto che l’assalto alla sede della Cgil di Roma sia stato un atto di squadrismo fascista c’è poco da discutere. Sarebbe opportuno riflettere se il dichiararsi semplicemente antifascista attribuisca la patente di “democratico”, ma questa è un’altra storia su cui prima o poi se ne parlerà seriamente.

Nello stesso tempo le dichiarazioni del Ministro Lamorgese sono state a dir poco sconcertanti perché in buona sostanza riconoscono che, pur potendo prevedere quanto sarebbe accaduto, non è stata rafforzata la difesa dell’edificio sindacale.

L’errore è clamoroso e, senza voler indulgere a interpretazioni oscure (come invece si è fatto incredibilmente per la vicenda della cosiddetta trattativa Stato-mafia) dovrebbe portare a conseguenze politiche su tutta la catena di comando responsabile dell’ordine pubblico durante la manifestazione nella Capitale.

Le sciagurate dichiarazioni che hanno pienamente giustificato le dimissioni imposte al sottosegretario Durigon impallidiscono di fronte a quanto accaduto nei giorni scorsi. Il potere si giustifica con la responsabilità e ciò sarebbe tanto più necessario nel momento in cui si sta delineando uno scenario preoccupante nel paese, a partire da alcuni importanti ambienti di lavoro come i porti e il trasporto.

La vaccinazione di massa ha consentito di far ripartire l’economia e di tornare a una normale vita sociale. È sconcertante che milioni di italiani rifiutino il vaccino (qualche miliardo di abitanti della terra protesta per esserne esclusi), pretendano che il tampone sia gratuito o addirittura lo rifiutano quand’anche fosse a carico del datore di lavoro che poi, come suggeriscono Cgil, Cisl e Uil, dovrebbe provvedere a scaricarlo fiscalmente.

Inutile dire che se il fenomeno di “disobbedienza civile” dovesse estendersi le istituzioni avrebbero non poche difficoltà a governarlo con il ricorso a un approccio sanzionatorio nei confronti di un numero rilevante di ‘ribelli’, a maggior ragione se collocati nei gangli più vitali dell’attività economica. È vero che si potrebbe trovare un “compromesso all’italiana” che, in presenza di un contagio sempre meno diffuso garantisca la gratuità del tampone con la mediazione del governo che di fatto con la discutibilissima nota del ministero dell’interno agli operatori portuali che suggeriva loro di farsi carico dei tamponi, ha socchiuso una porta che ora rischia di spalancarsi in tutto il paese.

Come non concordare con chi sostiene che questa soluzione sarebbe poco rispettosa nei confronti della maggioranza degli italiani che si è già vaccinata? Il fatto più grave riguarda la perdita di credibilità delle istituzione e la violazioni di regole che spesso sono state concordate. È il caso dei portuali di Trieste (che hanno sfilato in questi giorni dietro la bandiera di Rifondazione Comunista) che se ne faranno un baffo della dichiarazione di illegittimità dello sciopero dichiarato dalla Commissione di garanzia degli scioperi nei servizi pubblici.

Siamo di fronte ad una vicenda la cui natura richiama quanto accaduto più di trent’anni or sono al porto di Genova dove i camalli della mitica “Compagnia Unica” (allora praticamente una sezione del PCI) pretendevano il mantenimento di una posizione di monopolio totale del porto.

Il guaio è che se viene a mancare la consapevolezza che il rispetto delle regole è il fondamento della società civile aprire una situazione di grave instabilità per il nostro paese in torneranno ad avere un peso preponderante gli interessi corporativi mascherati da “diritti civili”.

Del resto il giorno dopo l’assalto di Forza Nuova alla sede della Cgil, un nutrito gruppo di manifestanti la cui matrice era certamente di “sinistra” manifestava, pur senza atti di violenza, di fronte alla Camera del lavoro di Milano accusata di essere asservita ai padroni e al governo.

Al netto dei comportamenti criminali che nelle società democratiche dell’occidente sviluppato assumono forme diverse (dopo il terribile periodo del terrorismo rosso e nero abbiamo conosciuto nazifascisti, black bloc, anarco-insurrezionalisti, centri sociali violenti e aggressivi No-Tav della Valsesia) è evidente che il malessere del paese non può essere semplicemente ricondotto al “green pass” che è divenuto un pretesto per manifestare uno stato, forse più di grave preoccupazione che di effettivo disagio sociale, che in ogni caso dobbiamo cercare di capire.

Queste difficoltà vengono da lontano: la lunga assenza di una politiche di riforme ha ingabbiato l’economia in una debole crescita segnata da bassi salari, da tassi di produttività inadeguati, inferiori a quelli dei paesi concorrenti, da alta evasione fiscale e da una burocrazia inefficiente, dal mancato sviluppo del Mezzogiorno.

La pandemia ha fatto precipitare una situazione già assai compromessa e l’occupazione è stata duramente colpita, un milione di posti di lavoro sono andati perduti e interi settori si sono fermati anche se gli ammortizzatori sociali e tutti gli interventi a sostegno dell’economia hanno evitato un disastro sociale e le conseguenze politiche che ne sarebbero certamente derivate.

I provvedimenti adottati e la svolta europea hanno consentito di dare il via ad una ripresa consistente che in tempi medi e con una strategia riformatrice adeguata sarebbe in grado di restituire un futuro alle nuove generazioni.

Tutto questo non avverrà però spontaneamente perché gli interessi particolari che difendono lo status quo esistente sono diffusi e “resilienti”.

Per questo tocca ai gruppi dirigenti delle forze politiche e sociali prendersi la responsabilità di compiere le scelte per realizzare i cambiamenti che ci chiede anche l’Europa.

I prezzi “politici” calmierati per i tamponi a carico dei non vaccinati volontari per accedere al lavoro possono essere il minore dei mali ma se si diventa prigionieri permanenti del timore di una saldatura tra lavoratori e movimenti eversivi non si va lontano.

Fa una certa impressione sentir parlare di “patto di pacificazione”, il termine usato dal Presidente della Camera Enrico De Nicola (futuro primo presidente della Repubblica Italiana) che il 3 agosto 1921 patrocinò la sottoscrizione di un accordo tra socialisti e fascisti (purtroppo poi fallito) per abbandonare l’uso della violenza nella lotta politica.

Non dimentichiamo che esiste anche una “maggioranza silenziosa” che deve essere rispettata. Assistiamo troppo spesso a uno scarico furbesco di responsabilità per far sì che siano gli “altri” a decidere.

Una cosa però è certa, se in qualunque forma dovesse prender corpo una sorte di “diritto di veto” con aggregazioni a geometria variabile tra forze politiche, organizzazioni sindacali e movimenti vari, allora per il nostro paese sarebbe davvero la fine della EU Next Generation, con tutte le conseguenze del caso.

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