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Perché la Nuova Guerra Fredda fra Usa e Cina si gioca nell’Indo-Pacifico

I futuri rapporti transatlantici saranno più squilibrati a favore degli Usa di quanto lo furono nella guerra fredda con l’Urss. Nella “nuova guerra fredda”, il teatro principale della rivalità fra gli Usa e la Cina è l’Indo-Pacifico. L'analisi di Carlo Jean

Molti parlano dell’autonomia strategica dell’Europa. Ne danno per scontati significato e obiettivi, senza affrontare né il problema della sua compatibilità con i mezzi e anche con la volontà politica disponibile, né dei suoi costi, tempi e reazioni internazionali. A monte, si pone il problema della definizione di un realistico ruolo dell’Europa nel mondo. Di quest’ultimo pudicamente non parlano. Ambiscono di trasformare l’Europa da “potenza normativa”, capace di effettuare mediazioni, che nessuno richiede, e di definire regole, che nessuno rispetta, in una potenza geopolitica, capace di determinare il proprio destino e d’influire sul futuro del mondo. La realtà è che essi sono consapevoli del declino europeo e del fatto che l’Europa nel 2050 avrà solo il 4% della popolazione e all’incirca il 10% del PIL mondiali. Il suo ruolo sarà perciò determinato da altri attori geopolitici e da forze che non solo non controlla, ma su cui anche non può influire se non marginalmente.

Diversi esponenti politici europei sono rassegnati a tale declino. Lo ritengono ineluttabile. Rifiutano grandi visioni a lungo termine. Si concentrano sul presente. Si limitano a politiche che conservino quanto più a lungo possibile l’attuale tenore di vita dei popoli europei e la loro sicurezza, realizzata con l’“ombrello USA”. Altri vorrebbero cambiare la situazione. Ursula von der Leyen ha auspicato una Commissione “geopolitica”, che si proponga di promuovere un ruolo attivo dell’UE al suo interno e dell’Europa almeno nelle sue periferie. Emmanuel Macron – con la sua tesi sulla “morte cerebrale della NATO” – ha sostenuto la possibilità dell’autonomia e anche della sovranità europea nel campo della sicurezza e della difesa. La loro premessa sarebbe costituita da un’intesa paneuropea con Mosca, che ne impedisca l’alleanza con Pechino, pur mantenendo in vita un’Alleanza transatlantica adeguata ai tempi, cioè i legami con gli USA. Difficile è che gli USA – soprattutto con Biden che, a differenza di Trump, considera Mosca il nemico principale di Washington – possano accettare tale soluzione. Qualora gli USA dovessero ritirarsi, l’Europa si ridurrebbe rapidamente a semplice appendice di un’Eurasia dominata dalla Cina.

La Commissione ha previsto per il 2022 una “Conferenza sul futuro dell’Europa”. E’ stata recentemente resa nota una bozza del documento di base che vi dovrebbe essere discusso. Esso tratta solo marginalmente il problema della difesa e della sicurezza. Ne è evidente il motivo. Molti Stati, a partire dalla Germania, ritengono che l’unico modo per evitare il completo declino dell’Europa sia quello di rafforzare i legami transatlantici, cioè di ricostruire un Occidente sotto la leadership USA. Sono consapevoli che dovranno appoggiarli nella loro rivalità con Pechino, anziché svolgere una mediazione fra Washington e Pechino, come taluni avevano fantasticato durante la presidenza Trump. A parte i suoi costi, l’allineamento con gli USA in funzione anticinese creerà difficoltà e problemi nella stessa UE, data la differenza d’interessi economici dei vari Stati dell’Unione con la Cina e la consapevolezza che la lotta contro le sfide globali (pandemie, cambiamenti climatici, ecc.) richiedono la collaborazione con la Cina.

Finora il problema è stato sottaciuto. Tutti gli Stati europei hanno sostenuto la tesi – politicamente corretta – che la crescita economica e la globalizzazione liberale avrebbero modificato la Cina, rendendola sempre più compatibile con i valori occidentali. Oggi ci si è accorti che tale ottimismo era irrealistico. Le cose non stanno così. L’UE ha dichiarato che la Cina rappresenta la “competitrice sistemica” anche dell’Europa e che vada confrontata con la “Lega delle democrazie” che Biden sembra voler promuovere contro le “autocrazie”, sempre più guidate dalla Cina. Crescono la preoccupazione per la penetrazione economica e infrastrutturale cinese e i sospetti circa le reali finalità dell’accordo “17+1” (già “16+1”, a cui si è aggiunta la Grecia), con il crescente aumento della presenza di Pechino nel “ventre molle” dell’Europa. L’UE, colpita al pari della Cina dalle sanzioni commerciali di Trump, non è stata in grado di elaborare politiche economiche e tecnologiche unitarie, da coordinare con quelle USA. Dovrà certamente farlo durante la presidenza Biden.

Il termine autonomia strategica è ambiguo. Taluni cercano addirittura di separarlo dalla politica estera e di sicurezza, fingendo di ignorare che essa non è più multilaterale. In passato, il rispetto delle regole era garantito dagli USA. Oggi gli americani non sono più disponibili a sostenere i costi dell’essere i “guardiani della storia”. Con l’attenuarsi del multilateralismo anche di quello retorico, la politica estera è tornata ad essere (come in realtà è sempre stata) una politica di potenza, basata sugli interessi, non sui valori e sui principi, peraltro solitamente definiti in ragione degli interessi. Sottaciuto è anche il fatto che i rapporti internazionali, almeno nei due prossimi decenni – allorquando l’India diverrà una grande potenza mondiale, capace di sfidare la Cina in Asia – saranno condizionati dalla rivalità fra Washington e Pechino. Ancor meno consapevoli gli europei – entusiasti per la nuova presidenza americana – sono del fatto che l’avvento alla Casa Bianca di Joe Biden, al posto di Donald Trump, determinerà per l’Unione difficoltà che non aveva precedentemente conosciuto. Con il suo disprezzo per gli europei e per la NATO e con le sue intemperanze, Trump univa gli europei. Il “guanto di velluto” di Biden e le sue gentili, ma ferme, richieste li divideranno. Hanno già provocato una dura polemica fra Macron e la Ministra della Difesa Tedesca, che non vuole sentire parlare di “autonomia strategica dell’Europa”, ma solo di “pilastro europeo della NATO”.

Un esempio alquanto buffo sulla differente interpretazione del termine “autonomia strategica” è stato quello di un esponente del governo italiano. Pieno d’entusiasmo per il “politicamente corretto” ha affermato che componente essenziale dell’“autonomia strategica” sia la green economy (come se disponessimo del litio, cobalto e terre rare per essa necessaria, e non dovessimo importarli, come il petrolio e il gas). Fortunosamente non l’ha estesa ai monopattini elettrici, bella pensata italica!

L’argomento “autonomia strategica” dovrebbe costituire il “piatto forte” della “Conferenza sul Futuro dell’Europa” e del “Dialogo di sicurezza e di difesa fra gli USA e l’UE”. Come ricordato, il primo è previsto per il 2022. Del secondo si parla in una bozza di “EU-US Agenda for the Global Change” della Commissione Europea. Diplomaticamente, il documento sorvola sui problemi della rivalità fra gli USA e la Cina, nonché della “NATO globale”, cioè dell’alleanza delle democrazie americane, europee e asiatiche, che dovrebbe estendersi al sistema indo-pacifico. Sottaciuta è anche la differenza d’interessi e di approccio europei rispetto a quelli americani nei confronti della Cina e della Russia. Gli interessi economici europei differiscono grandemente da stato a stato. Nel secondo trimestre del 2020, la Cina ha superato gli USA come primo importatore di prodotti tedeschi. A differenza degli americani, la massa degli europei non considera la Cina né un competitore geopolitico né una minaccia militare. Pensa invece che sia un’opportunità economica. Che con essa si possano fare buoni affari e anche collaborare per fronteggiare talune sfide globali.

I redattori della bozza del documento della Commissione sono stati indotti a sottacere tali differenze per la persuasione che l’Europa non possa influire sulle scelte USA, ma solo allinearsi ad esse. Non possa cioè attenuare una rivalità che rischia di marginalizzarla ulteriormente dal “grande gioco geopolitico” mondiale. Si tratta di una constatazione realistica. La confermano il declino demografico e quello economico dell’Europa. Nel 2050, nessun paese europeo sarà fra i sette più ricchi del mondo. L’UE sarà sempre meno propensa ad usare l’hard power. Il suo pressoché esclusivo affidamento sul soft power la marginalizzerà nelle questioni che contano. Lo si vede già con Erdogan. Solo con un rilancio della cooperazione transatlantica potrà mantenerne un minimo d’influenza nel mondo. Forse solo così potrà salvaguardare il suo attuale alto livello di vita.

I futuri rapporti transatlantici saranno più squilibrati a favore degli USA di quanto lo furono nella guerra fredda con l’URSS. Allora l’Europa costituiva il teatro principale del confronto strategico bipolare e le sue forze convenzionali erano essenziali per gli USA. Nella “nuova guerra fredda”, il teatro principale della rivalità fra gli USA e la Cina è l’Indo-Pacifico. Pur essendone profondamente coinvolta, l’Europa potrà fare ben poco per influire sulla politica di Washington. E’ stata emarginata dallo spostamento del centro strategico del mondo dall’Atlantico all’Indo-Pacifico. Non ha alternative all’allineamento alla “grande strategia” USA nei riguardi della Cina, anche in campo commerciale e, soprattutto nel settore dell’embargo delle tecnologie strategicamente critiche. Al riguardo, dovrà sopportare notevoli costi, in nome della solidarietà transatlantica, della promozione della democrazia e del multilateralismo, cioè di principi talvolta confliggenti con i suoi particolari interessi materiali, senza poter influire, se non marginalmente, sulle scelte di Washington.

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