L’ultima volta che la Camera dei Comuni si riunì a metà agosto in seduta straordinaria fu nell’estate 2013 quando l’allora premier David Cameron andò incontro a una bruciante sconfitta sull’autorizzazione ai bombardamenti sulla Siria, dilaniata dalla guerra civile. L’attuale premier, Boris Johnson, è un politico scaltro e ambizioso, ormai lo si è capito. Al motto di “I wasn’t born yesterday”, “non sono nato ieri”, ha fatto redigere una mozione di maggioranza che non impegna il suo governo in nulla sull’Afghanistan e riconosce semplicemente che in data odierna a Westminster si è discusso della recente crisi a Kabul. “Per approvare un simile documento politico avrebbero fatto meglio a restare a casa”, ha commentato sferzante Andrew Neil, decano dei commentatori conservatori e presidente della neonata tv GB News.
Sia come sia, il governo, come prevedibile, è stato colpito dal fuoco incrociato dei suoi parlamentari e da quelli dell’opposizione, in una seduta dei Comuni affollata come prima dello scoppio della pandemia. Se il leader laburista Sir Keir Starmer ha affermato che lo UK “ha tradito il popolo afgano a causa dell’inerzia del governo Tory”, parole dure sono arrivate anche dall’ex premier Theresa May, vera e propria anti-Johnson ante litteram nel partito Conservatore, che ha definito “incomprensibile” l’atteggiamento del governo che lei stessa sostiene e quello degli alleati americani. Parole che hanno fatto eco a quelle pronunciate nei giorni precedenti da Tom Tugendhat, Presidente della Commissione Affari Esteri dei Comuni, che non ha mancato di criticare l’amministrazione Biden. Per la verità, in modo piuttosto sommesso, anche Johnson ha lasciato intendere che gli Usa sono stati fin troppo frettolosi nella fuga da Kabul e hanno calcolato male la tempistica dell’avanzata dei Talebani.
Il premier nel suo intervento ha rimarcato tre cose. La prima è che il Regno Unito ha intenzione di giudicare i Talebani dai fatti e non dalle parole: Londra vuole portare la crisi afgana in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ai massimi livelli della Nato e del G20 (su questo la sponda di Downing Street è Mario Draghi). Secondariamente, Johnson ha riaffermato l’impegno del suo paese in soccorso del popolo afgano. Infine, tramite il suo portavoce, ha comunicato che il budget di aiuti finanziari per l’Afghanistan raddoppierà fino ad arrivare a 286 milioni di sterline. Non male dato che, tra mille polemiche, il governo Tory aveva tagliato i fondi per la cooperazione internazionale da 0,7 a 0,5% del pil. “La situazione sul campo è cambiata”, affermano da Downing Street.
Infine, il coup de théatre, tipico ingrediente della premiership johnsoniana. Con celerità impressionante il governo britannico ha messo a punto un piano per la stabilizzazione in Regno Unito di 20mila profughi afgani, di cui 5mila subito da quest’anno. Un risultato che BoJo e i ministri Raab e Patel hanno voluto fortemente per comunicare la tempestività con la quale il Regno Unito post-Brexit riesce a dirimere le questioni internazionali più intricate rispetto ai 27 dell’UE, che non hanno ancora ufficialmente aperto la questione. Nella Integrated Review presentata in Parlamento la scorsa primavera il governo Tory aveva indicato nel rinnovato protagonismo del Regno Unito all’interno delle istituzioni sovranazionali una delle chiavi per il futuro del Paese. Per questo Johnson è stato il primo a tirare in causa Onu e Nato, mentre Biden parlava ai suoi connazionali. Per questo ha proceduto alla velocità della luce a creare un corridoio umanitario per gli afgani più fragili in collaborazione con le tante organizzazioni non governative che pure, nel recente passato, hanno criticato la linea dura anti-immigrazione del ministro Patel. Se però gli Usa – primi azionisti Onu e soprattutto Nato – proseguiranno nel considerare chiusa la partita, a Johnson non resteranno che i buoni propositi e le buone azioni. Difficilmente rivendibili in campagna elettorale.