Quanto è grave e seria la minaccia di Isis-K, il gruppo jihadista che una settimana fa ha sferrato un colpo micidiale a Mosca? Come emerge dai report di alcuni think thank americani, di cui qui presentiamo i principali elementi, non è solo la Russia che deve tremare per la resilienza di una formazione terroristica poliedrica e feroce.
Il rapporto di Lawfare.
Docente alla Georgetown University e ricercatore presso il Center for Strategic & International Studies, Daniel Byman firma il report del blog “Lawfare” pubblicato in collaborazione con il think thank progressista più famoso d’America, la Brookings Institution.
Il documento si apre con un’amara constatazione: l’attacco di venerdì scorso a Mosca segna molto probabilmente una fase nuova di ritorno in grande stile della minaccia jihadista.
Toc-toc.
Isis-K, o Stato Islamico del Khorasan, si era già fatto vivo infatti a gennaio con un duplice attentato in Iran, in quella località di Kerman dove riposano le spoglie mortali dell’ex generale dei pasdaran Soleimani che una nutrita folla stava commemorando al momento delle esplosioni che hanno provocato la morte di quasi cento persone.
“Quelle bombe – scrive Byman – hanno segnato un cambiamento sostanziale per il gruppo, che prima di allora si era concentrato primariamente sugli attacchi in Pakistan e Afghanistan”, due regimi che combatte con pari ferocia. Anzi, agli occhi di Isis-K i talebani che governano Kabul dal 2021 sono addirittura una forza moderata “troppo desiderosa di fare compromessi con gli infedeli”.
Segnali.
Ma il segnale più chiaro di una minaccia incombente anche per noi sono stati i nove arresti compiuti lo scorso luglio in Germania ed Olanda “per presunti piani – scriveva all’epoca l’Associated Press – per mettere a segno attacchi in Germania e raccogliere denaro per lo Stato Islamico”.
Fu proprio in quel periodo che il capo del Comando Centrale Usa, generale Kurilla, rese una testimonianza al Congresso in cui, come riportò allora il New York Times, l’ufficiale spiegò che Isis-K “aveva le capacità e la volontà di attaccare gli Usa e gli interessi occidentali entro sei mesi e senza quasi nessun preavviso”.
Declino?
Quelle avvisaglie, nota ancora Byman, andavano messe in relazione però con un “complessivo declino” della casa madre dimostrato ad esempio dal ridotto numero di attacchi messi a segno negli ultimi anni e soprattutto dalle appena due vittime mietute in Europa nel 2022 contro le 151 del 2015 e le 142 dell’anno successivo.
Lo scoppio della guerra a Gaza dopo lo scorso 7 ottobre ha visto lo Stato Islamico tentare di ispirare alcuni attacchi in Francia e Belgio coronati però solo da parziale successo, vale a dire con un numero di vittime molto contenuto e certamente lontano dalle stragi di massa per cui il gruppo era diventato famoso.
Il perché.
La ragione è presto detta, secondo Byman, e si chiama America, la stessa che dopo una guerra a guida di un’ampia coalizione ha cancellato dalla carta geografica il cosiddetto Califfato fondato dai jihadisti nel 2014 in Siria ed Iraq in un’esperienza di governo conclusasi nel 2019 con la liberazione di Raqqa.
Da allora, osserva l’autore del report, il gruppo “non controlla più alcun territorio mentre si è ridotta la sua capacità di reclutamento, quella di raccogliere denaro e di pianificare operazioni”. Tutto grazie alle operazioni globali di intelligence degli Usa che hanno smantellato le poche cellule residue ancora attive e ucciso a ripetizione leader e gregari.
Centro debole periferia forte.
Con il colpo messo a segno a Mosca, scrivono in un altro report Aaron Y. Zelin e Ilana Winter del Washington Institute for Near East Policy, si conferma questa realtà divaricata in cui la casa madre siro-irachena resta “degradata” mentre le sue filiali, che il gruppo chiama “province”, sono in gran fermento.
Non a caso dei 1.121 attacchi rivendicati a livello globale dall’organizzazione (4.770 morti), la stragrande maggioranza li ha messi a segno la cosiddetta “Provincia dell’Africa Occidentale” (ISWAP) basata in Nigeria e nel Niger.
Seguono gli attacchi realizzati dalle province di Siria, Iraq, Africa Centrale (basata nella Repubblica Democratica del Congo) e Mozambico.
Ma quelli più letali portano proprio la firma della provincia del Khorasan, sottolineano gli analisti, con una media di 14 morti per attacco.
Il contenimento.
Quello del disimpegno americano nei confronti della minaccia jihadista è solo un’illusione ottica, osservano Zelin e Winter.
Al contrario, nel 2023 gli Usa, oltre a proseguire una sorveglianza globale e capillare, hanno sanzionato 24 membri Isis, prendendo di mira ad esempio un “emiro” iracheno e un pericoloso militante basato nel Sahel.
Sempre l’anno scorso il Dipartimento del Tesoro ha sanzionato il “tesoriere” della branca somala e 18 militanti delle Maldive coinvolti in attacchi locali oltre che nel reclutamento di nuove leve e nel riciclaggio di denaro.
L’atto amministrativo più recente risale al 30 gennaio quando sono stati inseriti nella lista nera tre militanti, tra cui una coppia di coniugi egiziani, che trafficavano in criptovalute e fornivano consigli tecnici ai leader e ai supporter del gruppo.
In tribunale.
Anche sul fronte giudiziario la guardia a livello globale non si è mai abbassata, come dimostrano i 470 nuovi casi aperti nei tribunali di 49 diversi Paesi, soprattutto in Turchia (80), Iraq (63) e Siria (54).
Minaccia elevata.
Ma è un altro documento del Washington Institute redatto da Devorah Margolin e Camille Jablonski a suggerirci che il problema Isis sussiste persino laddove gli americani hanno bombardato a tappeto per anni e stanziano ancora circa 2.000 soldati: ossia in Siria e in Iraq.
Lì infatti l’Istituto stima che il gruppo disponga di un numero di operativi compreso fra 3 e 5mila. Molto meno dei 14-18mila tagliagole attivi nel febbraio 2019, ma sufficienti per preoccupare tutti, come se ne è accorto anche Putin.