Spesso si sottolinea quanto la politica sia lontana dai veri problemi dei cittadini. Stavolta è successo il contrario: con un’astensione così bassa (appena sopra il 30% di votanti) da avere pochi precedenti nella storia repubblicana, sono stati i cittadini a mostrare la loro lontananza da quanti hanno tentato di politicizzare la consultazione con quattro tortuosi quesiti sul lavoro e uno chiaro, ma sbrigativo sulla cittadinanza (che non per caso ha registrato oltre un terzo di “no”).
È vero: con furbizia la maggioranza di centrodestra ha colto al volo la tendenza degli italiani a snobbare il referendum abrogativo, preziosa arma di democrazia diretta della Repubblica parlamentare. Si pensi che delle 77 consultazioni che si sono svolte dal divorzio, la prima nel 1974 (e la prima, si sa, non si scorda mai) a oggi, ormai in quasi la metà di esse non è stato raggiunto il quorum richiesto.
Eppure, al pari di Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio che s’è presentata al seggio senza ritirare la scheda, cioè salvando la faccia istituzionale, ma dando un’indicazione politica di disertare le urne, anche nel 1991 il capo dell’allora governo, Bettino Craxi, aveva espressamente invitato gli italiani ad “andare al mare”. Tuttavia, gli elettori disobbedirono in massa e, con lo storico “sì” all’abolizione delle preferenze multiple, diedero la spinta per l’addio con un altro referendum al sistema proporzionale.
Questa volta, invece, il Paese non ha sentito il bisogno di mandare al mare Giorgia Meloni come, sull’onda di più alte e sperate percentuali di votanti, puntavano le opposizioni per interposto referendum. I numeri separati dalle opinioni decretano la sconfitta dei promotori e sostenitori, dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, alla leader del Pd, Elly Schlein. Si erano battuti per abolire norme introdotte dal medesimo Pd di Matteo Renzi: agli occhi di molti i quesiti sul lavoro troppo somigliavano a un regolamento di conti all’interno della sinistra. “Quattordici milioni di votanti, più di quanti ne ha presi Meloni alle politiche”, è l’analisi della leader del Pd, che rimanda la sfida alle politiche.
Ma intanto la maggioranza gongola, perché il governo non ha subìto alcun “voto di protesta”. Come capitò con Renzi, che si dimise da Palazzo Chigi nel 2016 per il referendum perduto sulla grande riforma. La gente andò a votare, pur non essendoci obbligo di quorum, perché materia costituzionale. L’astensione elettorale non è perciò scontata: dipende dal tema posto e dalla posta in gioco.
Il lavoro e la cittadinanza sono materie da Parlamento, cioè molto complesse per essere risolte con un “o la va o la spacca” tipico del verdetto referendario. Il cui abuso, nel corso del tempo, lo ha ridotto a clava politica per colpire la parte avversa. Ma a volte diventa un boomerang.
Dopodiché vincitori e vinti se le cantino e se le suonino.
Ma non si dia la colpa ai cittadini, se e quando una parte rilevante del popolo sovrano decide di non essere interessata a esprimersi su quesiti che non capisce o che non condivide.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova
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