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Perché Festa non fa la festa al riformismo

Fatti, ricordi e curiosità su Lodovico Festa e il suo “titolo libro”. L’articolo di Sergio Soave

Oggi Vichi Festa raccoglie in un volume citazioni di autori illustri (l’ironico titolo del libro è “Non sapendo fare a maglia”) come base per una riflessione sulla propria esperienza e questo mi riporta alla memoria i tempi, ormai lontanissimi, in cui lui ed io sceglievamo le citazioni da inserire nei documenti e nei discorsi politici. Erano gli anni della contestazione, la mania delle citazioni era assi diffusa, i nostri competitori da sinistra sventolavano molto (e leggevano poco) il libretto rosso delle citazioni del presidente Mao, noi rispondevamo cercando nell’arsenale del comunismo frasi adatte a contrastare la lettura rudimentale, ma non infondata, del leninismo concentrata nello slogan “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia”. Con tutti i nostri sforzi, ripensandoci ora, non potevamo dare una lettura di “Stato e rivoluzione” che dicesse il contrario, ma comunque la battaglia delle citazioni di allora, anche se sostanzialmente strumentale all’affermazione delle proprie posizioni politiche, aveva comunque il senso della ricerca di un collegamento con il pensiero e la elaborazione, in sostanza le ideologie, sulle quali si cercava di costruire appunto quelle scelte politiche. Osservando l’assenza di radici, o il misconoscimento di quelle reali, di tanti movimenti più o meno effimeri di oggi, si ha quasi nostalgia di quell’impegno di allora.

La raccolta di citazioni presentata ora da Vichi ha un senso esattamente opposto a quello strumentale dell’uso delle citazioni di allora: non c’è alcun certezza politica da corroborare con le frasi di autori celebri, c’è al contrario la ricerca di un confronto tra quelle frasi e i problemi attuali di interpretazione della realtà e anche dell’esperienza personale. Insomma una specie di autobiografia problematica invece che una dissertazione infarcita di riferimenti colti selezionati per rafforzarla. Oggi attraverso le citazioni, Vichi si fa e ci fa delle domande che non hanno una risposta univoca e che proprio per questo risultano attuali. Uno dei nodi irrisolti cui dedica attenzione è la debolezza del riformismo, in Italia schiacciato tra i due conservatorismi della Dc e del Pci (per aggiungere un’altra stazione ricordo Enrico Berlinguer che definì il Pci, “partito conservatore e rivoluzionario” in un discorso tenuto in un teatro milanese, lasciandoci, Vichi ed io, assai perplessi).

Partendo da una citazione di Machiavelli che critica “gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo”, ricorda il realismo di tre personalità considerate tra le più influenti nella ricostruzione dell’Italia post bellica, Giovanni battista Montini, Raffaele Mattioli e Palmiro Togliatti, che per vie e con riferimenti diversi (da Jacques Maritain e Benedetto Croce a Antonio Gramsci) convergono in una visione realistica della politica che è poi la lezione fondamentale di Machiavelli.

L’assetto politico e istituzionale dell’Italia costruito con realismo sulla traccia degli accordi di Yalta, si trovò di fronte a una nuova sfida quando il crollo dell’Urss cambiò la situazione, ma l’esigenza di una grande riforma politico-istituzionale, avanzata soprattutto da Bettino Craxi, non trovò le forze necessarie per affermarsi. Le ragioni della crisi di quel riformismo sono un tema di indagine ancora rilevante, anche per capire se sia possibile oggi affrontare temi, quelli della parte ordinamentale della Costituzione in parte obsoleti, assolutamente attuali. Craxi sottovalutò il problema della forza, affidandosi all’abilità manovriera, che gli consentì di ottenere la presidenza del Consiglio, ma che non era sufficiente a superare l’intesa conservatrice tra le maggiori formazioni politiche. Non capì il ruolo che potevano giocare e che poi avrebbero effettivamente giocato spinte come quella referendaria promossa da Mario Segni e quella autonomistica se non addirittura secessionistica di Umberto Bossi. Vi lesse soltanto sintomi di indebolimento del sistema di potere democratico, ma sottovalutò il consenso, cioè la forza, che potevano esprimere. L’invito agli elettori ad “andare al mare” in occasione del referendum sulla preferenza unica, poi disatteso, fu la prova di questa incomprensione che avrebbe poi determinato il fallimento dell’ipotesi riformista.

D’altra parte la difficoltà del riformismo ad affermarsi come alternativa realistica alle fumisterie massimalistiche era già leggibile nella parabola della corrente di Filippo Turati sconfitto nel primo dopoguerra con affetti che sfociarono prima nel biennio rosso e poi nella reazione fascista. Parte proprio da una citazione di Turati la riflessione sul riformismo italiano e i suoi fallimenti, che gli hanno impedito di diventare il punto di riferimento di una sinistra che aveva perso il punto di riferimento della rivoluzione d’ottobre. Sono tutte domande attuali che il riferimento attraverso le citazioni ai pensatori e agli scrittori del passato non risolve ma approfondisce, e qui sta il valore principale di questo lavoro.

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