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Luigi Di Maio ci riprova con il mandato imperativo. Il Bloc Notes di Magno

Luigi Di Maio ci riprova contro il vincolo di mandato. Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Luigi Di Maio ci riprova. Indispettito per l’adesione della senatrice pentastellata Gelsomina Vono al neopartito di Matteo Renzi, da New York ha tuonato contro il “mercato delle vacche” e ha aggiunto: “È arrivato il momento di introdurre il vincolo di mandato: se cambi gruppo vai a casa”. La risposta del Pd non si è fatta attendere, e ha subito smorzato gli intenti bellicosi del ministro degli Esteri. Probabilmente non se ne farà nulla, e tuttavia l’episodio è significativo. I vecchi amori non si scordano mai, si potrebbe dire, e in questo caso il rousseauvismo naïf dei Cinquestelle si presenta come la caricatura di uno storico dibattito, che ha accompagnato il processo di formazione degli Stati nazionali e del parlamentarismo moderno.

Senza andare troppo indietro nel tempo, è l’Ottocento liberale europeo che segna il trionfo della libertà del parlamentare, pur nei limiti di un corpo elettorale ristretto e di una rappresentanza concepita come “scelta dei migliori”. Non così, o non del tutto così, sull’altra sponda dell’Atlantico: nella seconda metà del secolo era entrato in scena il “Progressive movement”, uno schieramento trasversale di forze sociali e politiche unito nella lotta per la riforma dei partiti mediante le primarie e per la democrazia diretta mediante gli istituti del referendum e del “recall”.

Quest’ultimo, tuttora vigente in alcuni Stati degli Usa (e, con diverse motivazioni, anche in Giappone e in alcuni paesi latinoamericani), designava il potere degli elettori di rimuovere un pubblico ufficiale prima della scadenza naturale del suo incarico. L’istituto del “recall” fu utilizzato dalla Comune di Parigi (1871) nel suo esperimento di autogoverno municipale. Esaltato da Marx, nel 1917 ispirò Lenin nella organizzazione dei soviet degli operai e dei contadini (e dei soldati), protagonisti dello sgretolamento dell’impero zarista. Il principio del mandato imperativo -cardine dell’ordinamento bolscevico- verrà poi inserito nella Costituzione dell’Urss del 1918.

Ben differente è stata l’avversione al libero mandato del più grande giurista del Novecento, Hans Kelsen. Strenuo difensore della Repubblica di Weimar (1919-1933) anche quando sembrava imminente il suo collasso, finisce col colpire al cuore le stesse fondamenta della democrazia pluralista. Secondo il teorico della dottrina pura del diritto, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, organi della volontà dello Stato e intermediari fra questo e gli individui, con la funzione di selezionare la classe dirigente e rappresentare i bisogni della società” (“Essenza e valore della democrazia”, 1920-1921).

Il ruolo del parlamentare viene così declassato da rappresentante della nazione a funzionario di partito. Il Parlamento kelseniano, in altre parole, è un organo tecnico di composizione della volontà dei partiti politici. Questa visione spinge il giurista praghese ad avanzare un’ipotesi eversiva: “Ci si potrebbe accostare all’idea di non costringere i partiti a mandare in Parlamento un certo numero, proporzionale alla loro forza di deputati individualmente determinati, che -sempre gli stessi- partecipino alla decisione di ogni più disparata questione, ma di lasciare ad essi la possibilità di delegare, a seconda delle esigenze connesse con la discussione e la deliberazione delle varie leggi, degli esperti scelti nel proprio seno, i quali partecipino di volta in volta alla decisione col numero di voti spettanti al partito secondo la proporzionale” (“Il problema del parlamentarismo”, 1925).

Questa ipotesi ha un inevitabile corollario: poiché la funzione di un deputato è subordinata al suo rapporto fiduciario col partito, ne discende che egli deve decadere quando cessa di appartenere alla lista nella quale si è presentato. Si può dire, in conclusione, che Kelsen aveva visto giusto quando ravvisava nell’allargamento del suffragio e nei partiti di massa le cause principali della trasformazione del sistema parlamentare. Non può dirsi altrettanto, però, quando sacrifica il libero mandato sull’altare della ineluttabile incorporazione dei partiti nella vita statale.

Infatti, può il mediatore (il partito) sostituire il mediato (il rappresentante e, insieme, il rappresentato)? Se la risposta è sì, allora valgono le pagine di Carl Schmitt sul principio d’identità come base di legittimazione dei regimi totalitari, e l’inquietante conclusione cui perviene: “In particolare, una dittatura è possibile solo su un fondamento democratico” (“Dottrina della Costituzione”, 1928). Se invece la risposta è no, perché significherebbe la resa alle forme più estreme di populismo, ogni stravolgimento dell’articolo 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) va respinto senza reticenze.

Del resto, benché mutuato dall’articolo 41 dello Statuto Albertino (1848), non per questo i suoi estensori erano ignari che la libertà del parlamentare doveva fare i conti con una società solcata da divisioni sociali e fratture territoriali profonde, e che i partiti di massa si erano ormai affermati come i principali collettori del consenso popolare. Nel 1946 (quando fu licenziato dalla seconda Sottocommissione), inoltre, era del tutto chiaro che la disciplina di partito poteva condizionare la condotta del singolo parlamentare, ma non doveva mettere in discussione la sua autonomia.

Lo affermerà lucidamente già nel 1964 una sentenza della Consulta (relativa alla controversa nazionalizzazione dell’energia elettrica), laddove recita: “Il divieto di mandato imperativo comporta che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito

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