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Perché Biden guarderà all’India e alla Russia per contenere la Cina

Uno dei principali problemi che dovrà affrontare il presidente americano Biden è la definizione della “strategia globale” Usa nei confronti della Cina. L'analisi del generale Carlo Jean

 

Uno dei principali problemi che dovrà affrontare il nuovo presidente americano Joe Biden è la definizione della “strategia globale” Usa nei confronti della Cina. E’ fallita la politica ottimistica secondo cui la crescita economica avrebbe provocato la democratizzazione e liberalizzazione dell’autoritario regime cinese. E’ anche fallita la politica di Trump di contenere e piegare la Cina con sanzioni commerciali e con embarghi tecnologici, come si era fatto con l’Urss nella guerra fredda. Erosa è anche la convinzione – viva soprattutto nella “mercantile” Europa – che l’onere di fronteggiare Pechino spetti esclusivamente agli Usa e ai loro alleati asiatici, e che l’Ue possa “chiamarsi fuori” e continuare a trarre vantaggi dal commercio con la Cina.

Con il suo unilateralismo, Trump non solo non aveva ricercato il sostegno degli alleati europei e asiatici degli Usa, ma li aveva anche apertamente trattati come avversari, se non come traditori e profittatori della protezione strategica Usa. Il risultato di tale politica è stato disastroso. Gli alleati degli Usa hanno concluso accordi di partenariato economico con la Cina. Lo sviluppo del commercio li rende ormai riluttanti a qualsiasi pressione su Pechino. La strada di Biden per ricostruire una certa coesione occidentale per fronteggiare le ambizioni cinesi di egemonia mondiale è decisamente in salita. Forse, l’unica alleanza di peso rimane il Quad, soprattutto in caso d’aumento delle tensioni dell’India con la Cina. Un’opzione militare deliberata è sempre più improbabile, nonostante la superiorità strategica degli Usa – che dispongono di oltre 6.000 testate nucleari, rispetto alle circa 300 cinesi. La geografia che ostacola il libero accesso della Cina alle rotte oceaniche. Resta invece un’escalation a seguito di incidenti soprattutto nel Mar Cinese Meridionale e a Taiwan.

I mutamenti geopolitici intervenuti, sia nel sistema Indo-Pacifico, sia all’interno degli Usa e delle loro tradizionali alleanze, complicano enormemente il compito di Biden di definire che cosa fare con Pechino. Egli è forse persuaso che il pericolo per gli Usa non sia tanto la crescita della Cina, quanto l’autoritarismo del potere cinese e il suo controllo statale dell’economia. La Cina non è l’Urss. Non presenta le vulnerabilità sistemiche, che avevano costituito la base della “Dottrina Truman” e del contenimento dell’impero sovietico durante la guerra fredda, fino al suo collasso economico. Il confronto fra gli Usa e la Cina è soprattutto fra la democrazia liberale e l’autoritarismo del capitalismo di Stato, pur aperto all’economia globalizzata. Riguarda il settore economico e soprattutto quello tecnologico. Gli Usa possono prevalere solo con il completo supporto dei loro alleati europei e asiatici. Esso sarà conseguibile solo dopo che gli Usa avranno ritrovato una certa coesione interna e ripristinato il loro prestigio internazionale. Facile da dirsi, ma molto difficile da farsi, anche perché il “trumpismo” non è scomparso con la sconfitta di Trump. Per molti americani, resta il fascino dell’America First, solo parzialmente attenuato dall’America is Back, proclamata da Biden e che tanti applausi ha suscitato nei suoi  pur scettici alleati.

Di fronte alle incertezze americane, la “grande strategia” cinese è chiara. Dall’inizio del secolo, si propone di erodere l’egemonia Usa, a partire dal sistema Asia-Pacifico, ormai esteso all’Oceano Indiano. Per realizzare tale obiettivo, Pechino ha utilizzato il multilateralismo e, con la Via della Seta, ha teso a unificare l’intera Eurasia attorno all’economia e alla finanza cinese. Ha anche ricorso alla cd “trappola del debito”, acquisendo assetti strategici dagli Stati non più in condizioni restituire i crediti cinesi. Recentemente, la “trappola del debito” si sta rivelando un boomerang. Pechino ha ridotto notevolmente i finanziamenti della BRI, a favore del mercato interno, adottando la politica della “doppia circolazione”, basata sui consumi interni e non solo sulle esportazioni. Essa è anche volta a metterla in condizioni di meglio resistere alla “guerra dei dazi” e alla diminuzione della vulnerabilità delle industrie occidentali dalle supply chain cinesi.

A più lungo termine, Xi Jinping ha indicato nel 2049, centenario della creazione della Repubblica Popolare, l’anno in cui la Cina diverrà la principale potenza mondiale, con la PLA in condizioni di vincere un conflitto globale. Il multilateralismo e il quiet o peaceful rise sono stati sostituiti da una crescente aggressività e dalla dichiarata aspirazione all’egemonia. Pechino adotta già nelle sue immediate periferie una politica egemonica. L’unilateralismo di Trump e la pandemia l’hanno accelerata. Esistono beninteso vari interrogativi sulla possibilità di successo di tale politica. Quali saranno gli effetti dell’aumento del soft power di Pechino dovuto ai successi nella gestione della pandemia e della sua “diplomazia sanitaria”? Potrà la Cina superare le sue difficoltà demografiche, ecologiche e i divari fra campagne e città? Quali sono i reali obiettivi dell’ammodernamento militare in corso? Quali politiche seguiranno l’Europa, la Russia e l’India?

L’unilateralismo “erratico” di Trump ha creato tensioni fra gli Usa e i loro alleati europei e asiatici. La loro concorrenza economica è stata assimilata a una rivalità geopolitica. Il ritiro Usa dai negoziati TPP (Trans-Pacific Partnership), che escludevano la Cina, li ha indotti a concludere accordi con Pechino che escludono Washington (Rcep e Cptpp). È scomparsa la possibilità d’intesa organica fra le due superpotenze, cioè di “Chimerica” o G-2, proposti da Robert Zoellick all’inizio del secolo e che aveva costituito la principale ragione della prematura ammissione della Cina alla WTO, trasformando, come ha detto Kissinger, la Cina in un Frankenstein. Analoghe tensioni hanno conosciuto i rapporti transatlantici. La  reazione europea è stato il CIA (Comprehensive Investment Agreement), concluso con Pechino, sotto pressioni di Berlino, proprio prima del cambio di presidenza Usa.

Biden dovrà affrontare l’erosione dell’influenza americana. Esiste un serrato dibattito sul se e sul come potrà “ricucire” con gli alleati tradizionali degli Usa e su quanto l’opinione pubblica e il Congresso siano disposti a “pagare” per realizzare – e fino a che punto – tale obiettivo. Forse, dovrà concentrarsi sul realizzare intese con l’India e, contrariamente alle sue convinzioni ripetutamente espresse, sul ricercare come Trump e come proposto da Macron, accordi con Mosca, per evitare che diventi alleata di Pechino, malgrado i suoi timori del “pericolo giallo”.

In secondo luogo, i successi di Pechino nella lotta contro la pandemia e i suoi massicci aiuti sanitari a molti paesi hanno accresciuto il prestigio e l’influenza cinesi nel mondo. Essi hanno contribuito alla diminuzione del prestigio internazionale dell’Occidente e degli Usa e alla crisi delle democrazie liberali rispetto ai sistemi autoritari. La loro contrapposizione rappresenta l’essenziale componente ideologica del contrasto con la Cina. La “crociata” a sostegno della democrazia e dei diritti umani, che Biden pone al centro del “ritorno” degli Usa sulla scena mondiale, non mi sembra sufficientemente attraente per gran parte dei paesi meno avanzati dell’Africa e dell’America Latina, tuttora alle prese con la pandemia, con la crisi economica e alimentare e con la mancanza di adeguate classi dirigenti.

La realizzazione dell’unità delle democrazie costituisce premessa di qualsiasi strategia efficace di Washington nei confronti di Pechino. Essa è molto più difficile da realizzare di quanto lo fosse nella guerra fredda. Primo, perché la Cina è molto più forte e meno vulnerabile dell’Urss. Ha una classe dirigente più abile e flessibile. Sa utilizzare con maestria la strategia del “divide et impera”. Secondo, perché gli Usa sono profondamente divisi al loro interno. Non è possibile un approccio bipartisan alla politica estera, come quello esistente nel corso della guerra fredda. Terzo, perché la maggioranza degli americani è convinta che gli alleati si approfittano di loro. Tale problema è molto più delicato di quanto lo fosse nella guerra fredda. Esiste una crescente tensione fra la rivalità strategica e gli interessi economici. Quarto, le tecnologie strategicamente critiche sono anche duali. È inevitabile che embarghi strategici erodano il partenariato commerciale fra l’Ue e la Cina. Ciò dipende anche dalle caratteristiche del confronto fra gli Usa e la Cina. Più che militare esso è economico, finanziario e soprattutto tecnologico. Quinto, la capacità degli Usa di imporre ai loro alleati regole comuni – ad esempio in tema di embarghi delle tecnologie strategiche o di supply chain – con sanzioni secondarie extra-territoriali è molto inferiore di quanto fosse in passato. L’unico settore che consente agli Usa di “punire” deviazioni rispetto alle decisioni di Washington è la vulnerabilità dell’euro rispetto al dollaro (lo si è visto nel ripristino delle sanzioni all’Iran).

Alla solenne dichiarazione di Biden al recente Convegno Wehrkunde e al G-7 di Londra che l’America is Back, dovrà seguire una lunga e faticosa serie d’iniziative che annullino la diffUsa convinzione dell’inevitabilità del disimpegno americano dagli affari mondiali e dell’indisponibilità degli Usa di riprendere la loro tradizionale leadership delle democrazie.

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