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Il Pd tra superiorità morale e crisi d’identità

Il corsivo di Paola Sacchi

 

È rimasta loro “la superiorità morale”, ha sentenziato Claudio Velardi, dopo che Matteo Renzi aveva aperto la crisi. Velardi ha osservato amaramente che i suoi ex compagni “sono anche brave persone”, le quali però non hanno capito i profondi cambiamenti della società, della politica, “abituati come sono ad essere nei luoghi che contano”.

In realtà, il problema del Pd, di cosa sia il Pd non nasce oggi, affonda le radici nel 1992-1993. Qual è il programma ufficiale del Pd? A parole, essere il partito della sinistra moderna, liberale, riformista. E però in Italia quella forza politica già c’era: il Psi di Bettino Craxi, che gli ex Pci ed ex sinistra Dc tanto avversarono.

Il Pd è il punto d’arrivo finale del lungo e tormentato – anche a suon di segretari saltati come birilli – peregrinare di queste due anime tra una sigla e l’altra, tra un simbolo botanico e l’altro, tra l’eterna ricerca di un Papa straniero federatore, ieri Prodi, oggi Conte.

Tante sigle e alberi, dalla Quercia all’Ulivo, ma mai i conti con Craxi e il suo Psi dall’avanzata elaborazione su “meriti e bisogni”. Era il Psi riformista, dalle scelte coraggiose come il decreto di S. Valentino. Ma di “ripartire” da Hammamet a largo del Nazareno non se ne è mai parlato.

Al punto di distinguersi insieme con i Cinque Stelle per l’assenza di una delegazione ufficiale l’anno scorso in Tunisia per il ventennale della scomparsa in esilio dello statista socialista.

Solo tre esponenti andarono a titolo personale. Gli eredi del Pci, prima Pds poi Ds infine Pd con la ex sinistra Dc, pensavano di sostituirsi a Craxi. il Pci sferrò un attacco senza quartiere al premier e leader socialista, l’offensiva politica si intrecciò nei fatti con quella giudiziaria, Craxi fini i suoi giorni lontano dall’Italia.

Le dimissioni a sorpresa del segretario Nicola Zingaretti, al di là di come finirà, al di là se resterà o meno, suonano comunque come il capitolo finale di un obiettivo non raggiunto.

Però i residui della cosiddetta “superiorità morale” restano.

Nella stessa definizione di “destra” o “destre”, usata con tono sprezzante nei confronti degli avversari politici in blocco, come fosse un tutto indistinto, c’è già il limite di come il Pd vive se stesso. Come avulso da un mondo dove tutto è cambiato e semmai paradossalmente pezzi di “sinistra” , ovvero quelle categorie più deboli e sofferenti, sono finiti nella “destra”, perché si sentono più rappresentati da Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia.

Il Pd a Roma, solo per fare un esempio, vince ai Parioli ma non nelle periferie, frequentate invece da anni dal centrodestra. E si può definire “destra” quella componente socialista craxiana, riformista che è dal 1994 parte importante di Forza Italia così come è centrale la cultura di ex Dc o ex Pli? O destra in blocco è la Lega di Matteo Salvini, che rappresenta gran parte del mondo della piccola e media imprenditoria, partite Iva, ceti medi in cerca di soluzioni pragmatiche e non ideologiche?

Destra è Fratelli d’Italia, ma quella di Giorgia Meloni è una destra moderna che ha già fatto le sue svolte. Gli ex Pci, Pds, Ds, infine Pd, in tutti questi anni hanno vissuto il bipolarismo e il confronto in generale come la continua ricerca di un nemico, prima “interno” a sinistra, ovvero Craxi, mentre ora il “nemico interno” è Matteo Renzi con la sua Italia Viva, poi ci sono i “nemici” esterni: da Silvio Berlusconi ostracizzato per anni, che si elogia nei momenti in cui lo si ritiene più debole, a Matteo Salvini, mandato a processo per il controllo dell’immigrazione. Intanto, un altro ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, uomo del Pd, con il quale gli sbarchi diminuirono, uomo lontano per storia politica da Salvini, si è dimesso da parlamentare per un prestigioso incarico a Leonardo.

I più maliziosi hanno visto nel gesto di Minniti una oggettiva insofferenza per la politica o non politica dei suoi compagni della “ditta”. Comunque sia, la “ditta”, autodefinizione degli ex Pci, appare ora come un partito che non riesce a fare i conti con la vistosa crisi di identità che lo scuote.

Se anche lo stesso Zingaretti attacca il suo partito accusandolo di occuparsi di “poltrone” in tempi drammatici come questi, evidente che il Pd appare come “un partito senz’anima”, come ha scritto il giovane Fabio Salamida, giornalista di sinistra, per Gli Stati generali.

L’ingresso della Lega di Salvini nel governo Draghi ha mandato in crisi il Pd che aveva puntato sulla narrazione contro “le destre” “populiste e antieuropeiste”. Evidente che aver insistito fino all’ultimo su “Conte o elezioni” è stato l’atto finale di una crisi di rappresentanza che dura da decenni.

Il fatto stesso che Conte ora si prepari a diventare leader dei pentastellati ha poi scombinato definitivamente i piani.

Ma se manca il vero progetto, un esame serio sulla rappresentanza, sugli errori del passato, a cominciare da quello fatale con Craxi, temi mai davvero affrontati, il rischio per il Pd, che sembra ancora aggrapparsi alla presunta “superiorità morale”, è che poi arriva sempre uno più puro che ti epura, come diceva Nenni.

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